Una donna, “L’amore dei Tre Re”

Data:

 

Al Teatro alla Scala, fino al 12 novembre

La Stagione 2022-23 si chiude con L’Amore dei tre re, titolo operistico che se appare a noi oggi poco usuale, ha avuto una regolare programmazione sul palcoscenico del Piermarini, partendo dalla prima assoluta del 1913 fino all’ultima rappresentazione del 1953. Il particolarissimo e ridondante libretto di Sem Benelli si fonde interamente nella musica che gli tesse Italo Montemezzi, che ne sposa il passionale lirismo e sensualità, spinti all’estremo, su uno sfondo di lacerante drammaticità di stati d’animo. Dopo la prima scaligera diretta da Tullio Serafin, con un cast i grandi nomi, all’opera arrise la notorietà, incontrando fortuna soprattutto negli Stati Uniti dove Toscanini la diresse al Metropolitan di New York nel 1914, dilagando poi su altri importanti palcoscenici statunitensi vantando un susseguirsi di cast da capogiro, soprattutto per la parte femminile di Fiora, interpretata a voci prestigiose del calibro di Mary Garden, Lucrezia Bori, e Claudia Muzio, solo per citare le principali. Il General Director del MET  Giulio Gatti-Casazza scelse L’Amore dei tre re quale inaugurazione della Stagione 1928/29: cantava Rosa Ponselle accanto a Martinelli e Pinza, sul podio ancora una volta Tullio. Serafin. Un titolo operistico che, ai tempi in cui furoreggiava sulle scene, doveva la sua fortuna al fatto di non essere evidentemente solo ascoltato, ma visto e goduto per le sue profonde e teatrali implicazioni drammatiche. Un libretto che oggi gronda retorica, ancora fruibile per il fascino musicale, rimasto inalterato, di cui è ammantato. Resta da recuperare l’approccio a un tipo di sensibilità operistica ormai tramontata, molto meno famigliare dei recuperi melodrammatici settecenteschi operati in questi decenni. I cantanti, in questo tipo di opere, devono vivere profondamente una composizione che fa del fraseggio e dell’interpretazione il fulcro e lo stesso peculiare motivo di esistenza. E non sempre questo è avvenuto fino in fondo nella compagine d’interpreti che si è presentata in palcoscenico. Evgeny Stavinsky è un Archibaldo cauteloso, più introverso che cattivo, lacerato da una nota di dolente e struggente celata passione, ma implacabile nella giustizia e lucido nella sete di vendetta. Interprete abbastanza credibile, anche se gli acuti non sono coperti e tende al parlato nell’invettiva finale. Avito era Giorgio Berrugi che, aiutato da un phisique du role, da un timbro caldo e limpido e da una voce “che corre” sa essere un innamorato ardente, facilmente rendendo la figura di un Re travolto dalla passione che lo avviluppa e incatena. Trova patetici accenti in Addio Fiora, ben sostenuto e accompagnato da un’orchestra che si esprime in colori di commossa partecipazione; amante disperato e palpitante, nella struggente scena del bacio della morta. Chiara Isotton invece era una Fiora che sposta più l’accento sul canto, spesso drammatico ma non essendo mai sensuale, dal  timbro un po’ tubato; voce  che si espande in acuto dove trova ampiezza di suono (anche troppa) e potenza di squillo, a significare il contrasto di cui  è combattuta. Smorza e fa qualche finezza vocale, ma più in termini sonori che d’incisivo fraseggio, non riuscendo a delineare la travolgente, stupita passione o lo spessore dell’anima. Roman Burdenko è Manfredo di bel timbro baritonale, interprete che mostra uno scandaglio dell’animo umano in sfaccettata e partecipata interpretazione, profondamente innamorato dell’ideale amoroso, riesce sottile fraseggiatore e padrone della voce con acuti coperti. Convincente e insinuante nel far breccia nel cuore di Fiora, ma anche fiero e combattivo pur con un animo esacerbato, struggendosi d’amore e senza conforto. Impetuoso nello svelare all’amata il paesaggio di passioni che imperano nell’animo, rende vivo, in speculare descrizione, quello esterno di valle e fiume, lacrime sul suo cuore scoperto. Vibra l’orchestra, ma Fiora, in scena, è restia a sciogliersi…Infine straziato e senza rimpianti, nella decisione di morte. Flaminio puntuale ed efficace di Giorgio Misseri. Corrette le parti minori. Fascinoso il Coro scaligero, in quegli oltretombali pianissimi. Pinchas Steinberg alla guida l’Orchestra della Scala, più che per lo scavo del dettaglio della partitura e nella concertazione dei cantanti – arrivando nei momenti di climax nei duetti fiammeggianti di passione a coprirne le voci – sa meglio farla vibrare nei momenti prettamente sinfonici, corposi e trascinanti, anche se non sottilmente sviscerati. Senza giungere a sviscerare le sfumature della partitura di Montemezzi s’impegna a creare l’atmosfera nei duetti di travolgente passione, con tinte sensuali e languide. Nuova la produzione che il Teatro alla Scala affida a Àlex Ollé / La Fura Dels Baus: regia efficace che risolve lo spettacolo in misurati movimenti, come il significativo finale in cui fa baciare la morta Fiora da Archibaldo prima che sparga il veleno sulle sue labbra, a scenicamente svelare l’ondeggiare del suo animo tra amore inconfessato e sete di vendetta. Alfons Flores crea una scena  fissa, pioggia di catene che cade dall’alto: passione devastante che incatena, ma anche foresta metallica in cui perdersi e nascondersi e non ritrovarsi. Catene fasciate da avvolgenti giochi di luce di Marco Filibeck, che le rendono vive, nel loro agitarsi, allo sventolar di velo di Fiora. Costumi ininfluenti di Lluc Castells che sfiorano il ridicolo nella scena d’amore iniziale, con gli amanti stesi sul letto in castissimi pigiamini da educandato. Calorose accoglienze finali per tutta la compagnia.

gF. Previtali Rosti

foto Virginio Levrio

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