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“Lucie de Lammermoor”, seconda Lucia

Data:

 

Al Teatro Sociale di Bergamo, repliche 26 novembre e 1 dicembre

Dopo i successi riportati da Anna Bolena, Lucrezia Borgia ed Elisir d’amore, Donizetti coglierà una gloria ancor maggiore il 26 settembre del 1835 al San Carlo di Napoli dove, esaltata da un cast d’eccezione, Lucia di Lammermoor andò in scena con esito trionfale. Opera che darà al compositore bergamasco fama imperitura, divenendo cavallo di battaglia per i più grandi soprani che, nella scena della pazzia, possono sfoggiare il loro valore. Anni dopo, a Parigi, Donizetti elaborerà una versione francese su libretto di Alphonse Royer e Gustave Vaëz, in cui la vicenda scorre più comprensibile e l’azione si svolge con una logica immediata. Non è una pedissequa traduzione, ma un’altra Lucia, da cui spariscono i personaggi di Alisa e Normanno, quella che andrà in scena il 6 agosto 1839 al Théatre de la Renaissance. Quello che balza subito all’ascolto è la sostituzione dell’aria d’ingresso di Lucia, Regnava nel silenzio con Perché non ho del vento dalla Rosmonda d’Inghilterrra, pur tradotta in francese. L’abitudine di interpolare quest’aria da diverse primedonne, che la trovavano più bella e meritevole di quella originale (soprattutto per la possibilità di fare di sfoggio belcantistico), era avvallata dallo stesso Donizetti che non esiterà nello scegliere quale aria tradurre nel nuovo libretto. Lucie de Lammermoor conoscerà un vastissimo successo eclissando, in Francia, la versione italiana per tutto l’ottocento fino all’arrivo di Nellie Melba, scritturata all’Opéra di Parigi per Lucia di Lammermoor.  Il soprano australiano, che conosceva solo la versione italiana, si sconttrerà con il teatro parigino che in repertorio aveva invece Lucie de Lammermoor: ne seguirà un ritardo della prima rappresentazione e un conseguente “aggiustamento” degli spartiti. Lucie vivrà stentatamente per altri anni, in un curioso mix delle due edizioni, fino a sparire completamente. Il Donizetti Opera propone Lucie de Lammermoor in un nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti in coproduzione con il Comunale di Bologna.  La serata della prima è stata dedicata a tutte le Lucie e Giulie morte per un abbraccio soffocante, non di amore ma per mano di maschi dominatori. La protagonista, Caterina Sala era molto attesa nel debutto nella parte e, pur in uno stato d’indisposizione ha voluto intraprendere la recita, sostenendo vocalmente il ruolo per la prima parte dello spettacolo, scegliendo di proseguire nella seconda per la sola parte scenica. Sospendendo il giudizio fino a un recupero pieno, si è potuto apprezzare il colore ambrato del soprano, voce caratterizzata da un vibrato stretto che rende più espressivo il suo canto, spostandolo verso un’interpretazione più calda e di partecipe fraseggio. Provata dalla fatica di sostenere i fiati e da una coloratura impervia, riesce pur sempre a regalare emozioni: evocativa nella prima aria, patetica e struggente alla firma del contratto di nozze. Proseguiva nella seconda parte, al leggio posto in palcoscenico, la sostituita Vittoriana De Amicis sicura nella resa vocale, soprano dal timbro più chiaro e flautato, meno drammatico, facilmente riconducibile all’immaginario timbrico di una Lucia più stilizzata aerea. Voce ben proiettata, squillante nel registro acuto ma povera nei centri, ha offerto un’interpretazione più classica e stereotipata, spostando l’attenzione su caratteristiche più tecniche che di fraseggio. Precisa negli attacchi, fluida nella vocalizzazione, godibile nella cabaletta, raffinata nei glissando, gustosa nelle variazioni della ripresa ma sfortunata nella chiusa dell’aria della pazzia. Edgard Ravenswood era Patrick Kabongo voce chiara, di fresca giovanilità, ma che tende a sbiancarsi quando sfuma; sale facilmente in acuto ma senza qualità di squillo. S’impegna nel trovare accenti credibili, più teneri e feriti che intrisi di orgoglio e onore, senza ambire a vendette, tanto la linea vocale non perde mai l’aplomb di un generico lirismo. Alla lunga il personaggio ne esce in monocromia, incapace di vero piglio drammatico, se non in superficie. Henri Ashton era Vito Priante, timbro nobile e accenti imperiosi senza essere forzati, la linea di canto sempre nobile che tende a sporcarsi negli acuti. Efficace nel tragico declamato del III atto, che Donizetti ha imposto a scapito dell’aria. Lord Arthur Bucklaw aveva il bel personale di Julien Henric, rendendo giustizia a una figura personaggio che in Lucia era solo abbozzato, privo com’era di spessore e credibilità, qui diventa personaggio a tutto tondo. Gilbert ha il timbro squillante di David Astorga in una resa da amorale cialtrone più che di un lucido cinismo, vilain ante litteram meno subdolo che diretto e palesemente intrigante. Raimond Roberto Lorenzi voce importante, soprattutto in acuti potenti, ma non sempre impiegata a fini espressivi. Il Maestro Pierre Dumoussaud, in compassata direzione, priva di reale tensione drammatica, narra senza una chiara visione di scavo o approfondimento della vicenda. Orchestra Gli Originali dalla resa anodina, imbarazzante nella precaria intonazione dei corni. Coro dell’Accademia Teatro alla Scala sempre vociferante. Regia Jacopo Spirei che s’ispira ai femminicidi, in cui da subito si evince che la caccia è alle donne, con la costante sottile violenza che il maschio esercita anche all’interno di ogni coppia. I due amanti, novelli Giulietta e Romeo, sono stretti da un patto di sangue: quest’ultimo, registicamente parlando, l’unico che si discosta dalla violenza maschile che caratterizza gli altri personaggi. Impianto semplice e statico di Mauro Tinti di foresta stilizzata, che non muta mai, con un tronco rinsecchito a centro scena. Desolante scena finale, su uno sfondo di degrado umano di poveri corpi abbandonati a terra in cui campeggia una carcassa d’auto, novello cimitero di Ravenswood, che il sicario di turno vorrebbe incendiare… Costumi di Agnese Rabatti di reminiscenze anni ’60. Cordiale accoglienza finale.

gF. Previtali Rosti

Foto Rota

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