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La vetta degli dei (Le Sommet des Dieux)

Data:

FRANCIA/LUSSEMBURGO 2021 96′ COLORE
REGIA: PATRICK IMBERT
VERSIONE DVD: NO

Nepal, anni Novanta. Al seguito di una spedizione di connazionali sull’Himalaya, il fotoreporter giapponese Makoto Fukamachi viene avvicinato da un nepalese che gli propone di acquistare la mitica macchina fotografica dell’alpinista britannico George Mallory, scomparso nel 1924 insieme al compagno Andrew Irvine durante la scalata dell’Everest. Makoto rifiuta la proposta, perché non crede che l’oggetto sia autentico; in seguito, però, incontra di nuovo il venditore, aggredito in un vicolo da un uomo che gli sottrae la macchina, rivendicandone la proprietà. Makoto riconosce l’aggressore: si tratta di Joji Habu, famoso alpinista giapponese scomparso misteriosamente dalla circolazione alcuni anni prima. Questo fatto provoca dei dubbi in Makoto. Determinato nel rintracciare l’oggetto che potrebbe finalmente far luce su uno di più grandi misteri dell’alpinismo (Mallory e Irvine raggiunsero la vetta dell’Everest ventinove anni prima di Hillary e Tenzing?), il giornalista inizia a indagare su Habu, ricostruendone il tormentato passato sportivo e umano. Durante la sua inchiesta, Makoto si appassiona così tanto alla vita di Habu che, una volta rintracciatolo nel suo rifugio segreto, mette da parte la ricerca della macchina e gli chiede di partecipare come testimone alla rischiosissima impresa che lo scalatore sta preparando da anni, e che è già costata la vita al suo rivale più acerrimo Tsuneo Hase: la scalata della parete sud-ovest dell’Everest in inverno e in solitaria.

Tratto dall’omonimo manga-capolavoro in cinque volumi di Jirō Taniguchi (disegni) e Baku Yumemakura (storia), La vetta degli dei è un esempio magistrale della maturità artistica raggiunta dal cinema di animazione, sia a livello tecnico che concettuale. A metà tra fantasia e realtà, la storia diretta dal regista francese Imbert è un omaggio, anzi, un atto d’amore per l’alpinismo, disciplina di cui sottolinea la dimensione epica e romantica della sfida dell’Uomo alla Natura e a sé stesso, e l’amore per la Natura stessa, di cui la montagna rappresenta una delle manifestazioni più grandiose. Il personaggio di Habu è dipinto come un solitario asceta dell’alpinismo, dominato dall’ossessione costante – tipicamente umana, tipicamente alpinistica – del superamento dei propri limiti (“UN ALPINISTA TROVA SEMPRE NUOVE SFIDE: SE NON PUO’ SALIRE PIU’ IN ALTO, CERCHERA’ LA STRADA PIU’ DIFFICILE, SALIRA’ PIU’ RAPIDAMENTE, IN SOLITARIA, SENZA OSSIGENO. INSOMMA: NON HA MAI FINE”, afferma Makoto), al punto tale da mettere a repentaglio la propria vita in nome di questo ideale. Anche Makoto, in un primo tempo determinato a rintracciare Habu unicamente per recuperare la macchina fotografica, si lascia conquistare dal sogno – diventato ormai la sua unica ragione di vita – dell’alpinista, che vuole riuscire là dove il suo collega e rivale Hase aveva fallito.

La sceneggiatura, firmata dallo stesso regista e da Magali Pouzol, semplifica la storia di Yumemakura e Taniguchi, cogliendone però tutta la poetica malinconia di fondo e l’intima essenza: l’alpinismo come sete insaziabile di sfida, pulsione irrefrenabile, atto gratuito e irrazionale, sogno (e bisogno) dell’Uomo di oltrepassare sé stesso. Di fronte a tematiche di tale portata filosofica ed esistenziale, anche una questione di grande rilevanza storica come quella relativa a chi abbia raggiunto per primo l’Everest sfuma in secondo piano: gli uomini passano, l’alpinismo e le montagne restano… Nella realtà, del resto, se il corpo di Mallory è stato ritrovato nel 1999 da una spedizione guidata dall’alpinista statunitense Conrad Anker, non si sa ancora nulla né dei resti di Irvine né della macchina fotografica. L’eventuale ritrovamento dell’oggetto, ammesso che le pellicole siano ancora intatte, potrebbe riscrivere la storia dell’alpinismo, permettendo di stabilire con certezza se i due alpinisti avessero raggiunto la vetta del “Tetto del mondo” in quel giugno del 1924 – ci troviamo proprio nel centesimo anniversario della loro scomparsa. In caso affermativo, ovviamente, verrebbe meno il primato dell’esploratore e alpinista neozelandese Sir Edmund Hillary, che compì l’impresa il 29 maggio 1953 insieme allo sherpa Tenzing Norgay. In accordo con la situazione reale, il film, giustamente, non offre la soluzione del mistero: Makoto riceve la macchina in regalo da Habu, torna a Tokyo, sviluppa le foto, conosce la verità ma non ce la rivela. Il vero enigma, del resto, è un altro: quale forza spinge gli alpinisti a rischiare la vita in questo modo e a non accontentarsi mai? Makoto prova a rispondere nel bellissimo finale del film: “PER ALCUNI LA MONTAGNA NON E’ UNA META, MA UN PERCORSO, E LA VETTA NON E’ CHE UNA TAPPA LUNGO IL CAMMINO. UNA VOLTA IN CIMA, NON RESTA CHE ANDARE AVANTI”.

In Italia La vetta degli dei è stato distribuito direttamente sulla piattaforma Netflix, senza passare per le sale cinematografiche: un gran peccato, perché un film così sarebbe stato valorizzato al massimo dalla proiezione sul grande schermo. A livello visivo, infatti, è un vero spettacolo: i suoi scenari alpini mozzafiato sono ricreati con un realismo che lascia a bocca aperta. Anche la colonna sonora, minimale ma perfettamente in grado di sottolineare l’epicità della vicenda, è emozionante e coinvolgente, e gli effetti sonori restituiscono in maniera efficace le vere “voci” della montagna (il vento, le valanghe, il rumore dei passi e delle picozze che perforano il ghiaccio…). Meritatissimo Premio César – l’equivalente francese dell’Oscar – come Miglior Film d’Animazione 2022.

Prima de La vetta degli dei, il compianto Maestro Taniguchi aveva già dedicato al mondo dell’alpinismo il notevole K (1993), sei racconti su testi di Shiro Tosaki.

Francesco Vignaroli

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