Festival di Berlino: inaugurazione in sordina

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Berlino, 15 febbraio – Un tema scottante, come quello riguardante il coinvolgimento della Chiesa in Irlanda nel collocare i figli delle madri single contro il loro desiderio, è stato affrontato dal regista Tim Mielants nel film “Small Things Like These”, che ha inaugurato oggi il 24º Festival di Berlino, trattandolo con tale tatto da suscitare sonnolenza negli spettatori.
Ispirato a un romanzo di Claire Keegan e scritto da Enda Walsh, già noto per “Hunger” di Steve McQueen, il film vanta un cast eccellente, con protagonisti Cillian Murphy ed Emily Watson. Tuttavia, la necessità di ricordare fatti delicati e scandalosi che hanno sconvolto l’opinione pubblica irlandese e mondiale ha attenuato l’intensità di un film che avrebbe meritato un trattamento più incisivo.
Siamo nel 1985, quando un padre di famiglia onesto e devoto (interpretato da Cillian Murphy, tanto convinto del progetto da decidere di produrlo personalmente) scopre un traffico di giovani donne incinte costrette a partorire in un convento e poi a dare i loro bambini in adozione contro la loro volontà.
Questo evento risveglia in lui una serie di ricordi della sua infanzia e adolescenza, precedentemente sepolti nel silenzio, che lo spingono ad agire per conto proprio per rompere il muro di complicità, causa di tanto dolore.
I momenti migliori del film sono quelli che descrivono il mondo familiare del protagonista, circondato da un vasto gineceo che la sua devota moglie tiene sotto controllo, lasciando alle ragazze e agli adolescenti una grande libertà d’azione in un ambiente gioioso e scherzoso che contrasta con quello del convento, i cui muri nascondono servitù e sofferenza.
Mielants, proveniente dal mondo della televisione e della fotografia, mostra un’irlanda grigia e opprimente, che tra nebbia, pioggerella, neve e fuliggine distrugge l’anima dei suoi abitanti e riversa questa tenebrosa atmosfera nello spettatore di questa Berlinale iniziata sotto così tristi auspici.
Il festival è stato inaugurato oggi in mezzo a una polemica politica che ha minacciato di disturbare l’atmosfera festosa e cinefila quando, un paio di settimane fa, la direzione ha deciso di invitare ufficialmente, con uno spirito ecumenico, cinque membri del partito di estrema destra AfD (Alternativa per la Germania), che non nasconde la sua intenzione di espellere tutti i tedeschi non di razza pura, nel caso arrivasse al potere.
Questa decisione, parte della consuetudine della Berlinale, finanziata dallo stato tedesco, di invitare all’inaugurazione 100 parlamentari della città, rappresentanti di tutti i partiti, ha suscitato l’indignazione di gran parte dell’industria cinematografica tedesca, che ritiene l’AfD “incompatibile” con la politica della Berlinale che, fin dalla sua fondazione, si è contraddistinta come luogo in cui regna “l’empatia, la solidarietà e la comprensione” tra i popoli e le nazioni.
Sebbene tale concetto sia discutibile, ricordando che il festival, durante la guerra fredda, ha contribuito ad alimentare la rivalità tra mondo libero e comunismo, è vero che sin dall’inizio del “disgelo” nelle relazioni tra le grandi potenze, la Berlinale è stata il luogo che più ha lottato per la caduta del muro che divideva la ex capitale tedesca.
E sebbene l’invito sia stato annullato, evitando un boicottaggio dell’industria cinematografica locale, è vero che il problema è stato solo nascosto sotto il tappeto mentre l’AfD si è già dichiarata vittima di un ostracismo simile a quello che ha colpito la comunità ebraica durante il periodo nazista.
Antonio M. Castaldo

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