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Tre Operai e la “coscienza infelice” di Stefano Massini

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In un mio intervento in Academia.edu dal titolo “La coscienza infelice della dolce vita” sottolineo come lo sfondo triste e a volte tragico del fenomeno sociale, culturale e cinematografico che prende il nome dal film di Fellini segnali quella che Hegel definì nella Fenomenologia dello Spirito “la coscienza infelice del padrone”. Il quale possiede ma non produce l’oggetto di sua proprietà, mentre il servo è frustrato (alienato) dalla privazione del suo prodotto. Da questo concetto, come noto, si è sviluppata la filosofia di un grande posthegeliano: Karl Marx.
Riflettevo sul tema l’altra sera durante la rappresentazione al Teatro Vittoria del dramma di Stefano Massini Sette minuti con la brava Viviana Toniolo nel ruolo della delegata di fabbrica Adriana, fulcro di una (mezza, poiché lasciata interrotta dall’Autore) presa di coscienza da parte delle altre operaie. Se oggi concediamo il taglio di sette minuti alla pausa per andare al bagno, questa la tesi di Adriana, loro guadagneranno 900 ore al mese e noi infiliamo la testa nel cappio di ulteriori tagli e richieste che non finiranno qui.
Mi sono detto: ci risiamo! E ancora: aveva proprio ragione Ermanno Rea quando un giorno mi telefonò per dirmi: “sto rileggendo Tre operai di tuo padre Carlo Bernari (romanzo del 1934, composto tra il 1929 e il 1932) e devo dirti che mi sembra scritto non stamattina, ma cinque minuti fa. Bada però che non è tutto merito di tuo padre, ma anche demerito dell’Italia che è rimasta quella di prima”.
L’opera di Stefano Massini, a proposito di attualità di Bernari, rappresenta una situazione pedissequa a quella in cui si trovano gli operai di Bernari, Teodoro, Anna e Marco. I quali sono costretti a rinunciare agli ideali rivoluzionari riducendoli ad una contrattazione puramente rivendicativa sul piano salariale o dell’organizzazione del lavoro. La contraddittorietà della lotta operaia risulta evidente da un monologo interiore del giovane protagonista di Bernari, Teodoro, una sorta di Martin Eden un po’ più sfigato:

Il quindici per cento di aumento sul salario, ecco. Io guadagno dodici , dunque il quindici per cento sarebbe: uno e venti più sessanta, la metà, e fanno… uno, uno e ottanta. Dodici più uno e ottanta guadagnerei allora tredici e ottanta. Bisogna darsi da fare! Una coscienza operaia ci vuole. Molti non ce l’hanno: ecco la deficienza del proletariato…. Il proletariato è deficiente perché non riesce ad industriarsi per un avvenire migliore.

Tra Bernari e Massini, tra Tre operai e Sette minuti, c’è però una grande differenza sulla base delle storie personali degli autori. Bernari di origine piccolo-borghese non ha una formazione scolastica poiché è stato espulso nel 1920 a undici anni da tutte le Scuole del Regno per indisciplina, insubordinazione e vilipendio del Re d’Italia. Viene così costretto a lavorare come operaio semplice nella tintoria di famiglia dove si forma una coscienza operaia a contatto coi compagni di lavoro. Al punto da imporsi di studiare freneticamente da autodidatta poiché si mette in testa di scrivere, siamo intorno al 1927 quando Bernari ha 18 anni, una impegnativa storia della classe operaia a Napoli. Progetto che fallisce per ovvii limiti di conoscenza storica, ma che apre le porte al romanzo Tre operai datato 1929-1932. Dimenticavo che siamo in pieno fascismo e Bernari, bollato come comunista e disfattista da Mussolini in persona, è costretto a sopravvivere di piccole collaborazioni tra un nascondiglio e l’altro fino alla Liberazione.
Stefano Massini invece ha un’altra più fortunata storia. Ha frequentato il liceo classico Dante a Firenze, si è laureato in lettere. Appena incoronato d’alloro accademico inizia a collaborare col Maggio fiorentino. Scrive un primo testo e vince il premio Tondelli. Ubulibri e Einaudi si contendono i suoi titoli. Da Repubblica alla Rai, dalla Sette a Mondadori e poi premi (meritatissimi, intendiamoci, award, Golden Globe chi più ne ha più ne metta).
Il punto è che Massini, a differenza di Bernari, una coscienza operaia non solo non può avercela non essendo mai stato operaio, ma non può neppure sapere di che cosa si parli. Ci arriva per sentimento, certo, per simpatia ed empatia, e non nego che sia sincero. Ma nelle sue parole, nei suoi discorsi, nei suoi testi c’è sempre una scorza di moralismo, un residuo di buonismo tipico di chi può permettersi di guardare dall’alto, consigliare e commiserare i Vinti e al tempo stesso compiacere il padrone che lo ripaga con contratti e onoreficenze. Tutto ciò senza giungere allo sdoppiamento verghiano che impedisce allo “scrittore del popolo” e delle classi subalterne di esprimere giudizi morali, anzi vietandoseli esplicitamente con l’esternalizzazione della figura del “narratore” (che deve nascondersi, non mostrarsi, vedi il Manifesto del Verismo).
A differenza di Bernari, dunque, Massini non è un operaio; ma a differenza di Verga non rappresenta evitando di intervenire e presenziarsi, come vuole il grande autore siciliano. Interviene eccome, dovunque ci sia una trasmissione, un premio, un palco, dal Sistina al Piccolo di Milano, dal 1° maggio a Sanremo. Per sfornare pillole (condivisibili ma da maestrino) di intellettualistico fervore gradito ad un pubblico, oddio! sto per usare un termine che odio!, radical chic. Ovvero la classe medio-alta dove sono di casa i buoni sentimenti, se non costano troppo al di là di un applauso al Teatro Vittoria dopo un’aperocena a Testaccio, e dove, come recita il titolo di una degli ultimi romanzi di Carlo Bernari, Tanto la rivoluzione non scoppierà.
A questo punto mi spiego l’espressione di tesione interiore, di rovello, il volto corrugato in una maschera di rabbia trattenuta che leggo spesso sul volto di Massini: si tratta proprio di quella “coscienza infelice” di cui dicevo prima. La coscienza infelice della dolce vita, appunto, la sua.

Enrico Bernard

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