Alla Silio Italico a tu per tu con Peppe Diana

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Si sente ancora l’eco delle cerimonie tenute a Napoli ed in tutta la Campania sull’anniversario della morte di don Peppino Diana. Il 19 marzo di ogni anno, infatti, soprattutto nelle scuole si celebra l’opera ed il messaggio del sacerdote ucciso dalla camorra proprio il 19 marzo del 1994. Tutti conoscono il sacerdote che ha difeso strenuamente il suo popolo ma pochi conoscono la sua vita privata e le esperienze che lo hanno condotto alle scelte che ha fatto nella sua vita e che, purtroppo, lo hanno portato alla morte prematura. Scorpiamo dunque meglio chi è stato semplicemente Giuseppe Diana, l’uomo prima che il sacerdote, attraverso un’intervista a ritroso nel tempo che hanno immaginato di fargli tre studenti della 1I della scuola secondaria di primo grado “Cariteo-Italico” di Napoli. Lavorando in classe con i propri docenti nelle ore di educazione civica a proposito della legalità, i tre studenti Giulietta, Giorgia ed Andrea si sono rivolti direttamente all’artefice del nuovo corso contro la camorra. Domande secche e semplici a cui il sornione Giuseppe Diana avrebbe senz’altro risposto con la sua serenità e pacatezza. Buon giorno don Peppino, com’è stata la sua infanzia? “Innanzitutto datemi del tu, non sono poi così vecchio, ho solo 35 anni! Comunque sono nato a Casal di Principe il 4 luglio del 1958. Il mio papà Gennaro e la mia mamma Iolanda vivevano lavorando la terra. Sono il primo di tre figli e i miei fratelli si chiamano Emilio e Marisa. Sono entrato nel seminario vescovile di Aversa appena ho compiuto dieci anni dove poi ho conseguito la licenza media e quella classica liceale. La mia famiglia ha fatto enormi sacrifici per farmi studiare. Il mio papà doveva pagare una retta molto costosa per la nostra famiglia ma ai miei genitori interessava innanzitutto togliermi dalla strada perché Casal di Principe era un paese difficile. Pensate che tornavo a casa solo a Pasqua e a Natale.” Quindi andava con piacere a scuola, era bravissimo? “Vi ho detto di darmi del tu, ci riuscite? Comunque sì, mi piaceva andare a scuola ed ero bravo. Ho infatti conseguito la licenza liceale con ottimi voti e vinsi anche una borsa di studio. Il Vescovo dell’epoca, Antonio Cece, molto tempo dopo mi diceva che non ero un prete come gli altri e che dovevo assolutamente fare carriera, che dovevo andare a Roma per diventare qualcuno di importante. Infatti dopo la licenza liceale entrai nell’Almo Collegio Capranica di Roma per diventare sacerdote. Cominciai anche a frequentare i corsi di Filosofia e Teologia nella Pontificia Facoltà Gregoriana ed ero contento. Poi però cominciai a ricredermi. Io ero un ragazzo come voi, allegro e gioviale ma anche un po’ esuberante, quel clima rigido del collegio e il distacco dalla mia famiglia mi facevano stare male. Così cominciai a tempestare di telefonate mia mamma perché non ci volevo più stare in quell’istituto e alla fine tornai a casa.” Quindi dopo il ritorno a casa che cosa è successo nella tua vita? “Bravi, finalmente mi avete dato del tu e mi state facendo passare per la testa i ricordi della mia infanzia e giovinezza. Quando sono tornato a casa mi sono iscritto alla facoltà di Ingegneria dell’Università Federico II di Napoli. Ma anche questo non mi bastava, putroppo, continuavo ad essere sempre triste e pensieroso. Questa crisi durò circa tre mesi eppure diedi anche un esame ad ingegneria! Più passava il tempo e più diventavo triste. Finché un giorno ho avuto il coraggio di confidarmi con mia mamma e le dissi di voler tornare subito in seminario, non ce la facevo più a stare fuori. Con il conforto di mia mamma andai da solo a parlare col vescovo di Aversa, il Monsignor Antonio Cece, che però mi consigliò di aspettare ancora qualche mese prima di rientrare in seminario. Ma io gli risposi che la scelta l’avevo già fatta e quello stesso pomeriggio me ne andai a Napoli, al seminario di Posillipo. Da allora non ebbi più alcun dubbio sulle mie scelte.” Da quel momento è cominciata la tua carriera di sacerdote. E’ stato bello come te lo apsettavi? Diventai sacerdote il 14 marzo del 1982. Da giovane prete avevo un rapporto speciale con i ragazzi, anche perché nel frattempo ero diventato uno scout. Ero il responsabile diocesano degli scout cattolici, ed accompagnavo anche i malati nei viaggi a Lourdes. E poi avevo una passione sfrenata per il calcio. Quasi ogni domenica andavo sugli spalti dello stadio che si chiamava ancora San Paolo di Napoli per seguire il Napoli insieme ai giovani della mia comunità. E’ stato bellissimo, dunque, per me diventare sacerdote perché ho cominciato a fare le cose che mi piacevano davvero.” Quindi è stato facile con i ragazzi? Assolutamente no, cari ragazzi. Anzi, difficilissimo. Proprio loro sono ed erano i soggetti più fragili a Casal di Principe. Mi hanno affidato Domenico, il figlio illegittimo di un boss, diviso tra il desiderio di seguire la camorra ed il nostro gruppo in chiesa, e ho cercato di salvarlo da una possibile vendetta. Ho dovuto seguire anche Teresa, una giovane del mio gruppo, anche lei figlia di un boss, obbligata a sposarsi con un ragazzo della famiglia rivale. E poi ho visto morire Francesco che ha cercato di salvare un suo amico scout. Non è tutto oro ciò che luccica ragazzi miei. E ancora oggi ci sono tutti questi problemi? Da quando il 19 settembre del 1989 sono stato nominato parroco della parrocchia di San Nicola a Casal di Principe, ovvero il mio paese, ho trovato problemi enormi che ho provato e sto provando ancora oggi a risolvere. Ora sono diventato famoso perché ho scritto una lettera al mio popolo indirizzata ai parroci della mia Diocesi. Ho scritto che per amore del mio popolo io non tacerò ed è quello che dovremmo fare noi tutti cittadini. Ormai noi dobbiamo essere più responsabili come uomini di Chiesa, come politici, come cristiani e come cittadini. Tutti dobbiamo combattere la camorra denunciandola ogni giorno, isolandola. E’ vero che la camorra uccide ma ad uccidere è anche il silenzio di tutti noi. Nelle parrocchie noi sacerdoti dobbiamo aderire alla nuova realtà con nuovi piani pastorali, accogliendo i giovani che altrimenti andranno a riempire i clan della camorra. Sono parole difficili, ragazzi miei, ma con i fatti è molto più semplice. La nostra comunità ha bisogno di nuovi modelli di comportamento per essere credibili. Dobbiamo impegnarci tutti e voi dovete promettere di seguirci.” Grazie don Peppino, con l’esempio dei nostri genitori e di persone come te ci proveremo. Per fortuna anche a scuola i nostri prof fanno la loro parte, ci presentano l’educazione alla legalità come uno dei momenti più importanti della nostra esperienza scolastica. “Bene così, ora vi saluto promettendo il mio impegno ogni giorno, cari ragazzi. Anche perché tra qualche anno non vorrei battermi il petto colpevole. E’ quello che dovremmo fare tutti noi ogni giorno della nostra vita.” Grazie ancora don Peppino per i tuoi insegnamenti, verremo a trovarti ancora.

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