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Johan Cruyff, morte di un Poeta.

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Un numero che non sarà più un numero, ma un nome. Una parola. Un’idea. Quattordici: in lettere, come le lettere che, composte in sillabe, servono a pronunciarlo, quel nome. E un colore: l’arancione, ormai consacrato a un senso ulteriore, mai posseduto così intensamente prima. Il colore di un’epoca, di una generazione, che è anche il modo di intendere e di essere la giovinezza in fiore, al culmine di ogni magia possibile. E una banda rossa su fondo bianco: la maglia dell’Ajax, quella maglia che chiunque la indossi è toccato dal sortilegio di essere un po’ lui, traversato dal suo vento, sfiorato da sbafi della sua bellezza, illuminato da lampi del suo splendore.
Una vita, quand’è decisiva, questo fa: mitizza. Inventa tradizioni da subito fatali e nutrite di un passato che non si può dire di quale tempo si alimenti. Come i girasoli, che mai più sono stati semplici girasoli dopo il pennello di Van Gogh, o come le balene, da quando Melville ne ha battezzata una tingendola di bianco.
Non parlo di calcio, parlo di Cruyff. Parlo dei miei vent’anni e dei loro valori più simbolici. Parlo dell’orgoglio che ora provo per una coetaneità che mi ha fatto vedere  meraviglie nell’attimo  stesso in cui avvennero e non solo in quel perenne dopo destinato a farsi scansia, archivio, repertorio, e ripetizione del saputo.
Io, per mia buona sorte, sono stato pubblico vivo e testimone partecipe. Ho assistito al prodursi di gesti tecnici toccati dalla grazia dell’ispirazione quando ancora il loro compiersi poteva apparire incerto, senza che in realtà lo fosse. Nell’intitolare un film su di lui ‘Il profeta del gol’ è stato colto forse proprio questo: l’inizio di un atto che è presagio della propria conclusione. Il gol, l’assist, la magnificenza di un’impresa che chiunque potrebbe comprendere.
Perciò, ora non parlo di calcio, parlo di Cruyff.
Nel finale di ‘Manhattan’, Woody Allen, costretto a fare i conti con se stesso, mormora stanco al microfono di un piccolo registratore a cassetta il suo personale elenco delle cose per cui vale la pena vivere… il buon vecchio Groucho Marx, le pere e le mele di Cézanne, Joe Di Maggio, Marlon Brando, i film svedesi, e il sorriso di Tracy (nel film, Mariel Hemingway). Nella mia lista – con Cézanne, Jack London e Bob Dylan – c’è il volto di Cruyff. Il volto della velocità sapiente. I suoi capelli spigati, le sfaccettature intagliate dei suoi zigomi, le guance magre e le labbra scure incise nel pallore di un ovale iconico, e quello sguardo che dice: volerò. Volerò a scarti improvvisi, e ogni mio volo avrà il suo giusto termine.
In tempi di tragedia quale è il nostro, di ecatombi e di stragi, alcune morti individuali possono almeno ricordarci la misura del nostro essere, uno a uno, portatori di memorie singole e al contempo condivise che sono impeti di resistenza; storie vive nel ventre della Storia cannibale.
Per questo in queste righe non parlo di calcio, ma di Johan Cruyff.

Giuseppe Manfridi

A nome di tutta la Redazione, grazie al Maestro Manfridi per il prezioso contributo.

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