Il Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia – Trieste, dal 25 al 30 ottobre 2016
Ogni messinscena è un’interpretazione; Friedrich Dürrenmatt, caustico autore del Novecento, nell’affrontare nel 1969 Danza macabra di August Strindberg per il Teatro di Basilea, fece del testo qualcosa che va oltre a ciò, definendolo “arrangiamento” e cambiandone il titolo. La pièce diventerà così Play Strindberg e sarà molto diverso, sia nello spirito che nella forma: dall’impietosa ma partecipe analisi psicologica e sociale del matrimonio borghese, si passa ad uno sguardo oggettivo e distaccato della relazione all’interno della stessa coppia operato con una tal dose di sarcasmo da trasformare il tragico in un comico dai toni farseschi. Tre i personaggi: Edgar, capitano di artiglieria, Alice, sua moglie, ex attrice, e Kurt, suo cugino, perché Dürrenmatt elimina prima di tutto le comparse; trasforma poi la scena: da sala collocata all’ interno “di una torre tonda di fortezza” in un ring di lotta o pugilato; ognuna delle undici scene è preceduta dal suono del gong e dall’annuncio del numero della ripresa, cui viene dato un titolo dal tono salottiero che risulta essere totalmente stridente con il contesto. Ai dialoghi toglie ogni apparente delicatezza rendendoli secchi, diretti, dei veri e propri colpi che gli avversari si scambiano uno contro l’altro. La forte aggressività, che appare fin dalle prime battute, perde parte della sua natura violenta soprattutto grazie al ritmo (all’inizio quasi musicale) e alla ripetizione di alcune frasi (ad esempio il “ma non parliamone più” che ricorre passando da personaggio a personaggio o il “più o meno” di Kurt quando Edgar o Alice parlano “di filosofia”), per trasformarsi in un gioco grottesco, squallido e paradossale dal quale nessuno riesce o vuole sottrarsi e quasi gode nel lasciarsi invischiare.
Il risentimento tra Edgar ed Alice è nutrito con pervicacia dal rimpianto verso il fallimento delle personali aspirazioni di cui uno accusa l’altro e viene alimentato ulteriormente dall’arrivo di Kurt, la cui presenza fa riemergere vecchi ricordi. Il disconoscimento del valore dell’altro è finalizzata alla conservazione di un’immagine di sé chiaramente in frantumi, la cui distruzione ognuno cerca di nascondere prima di tutto a se stesso, ma i meccanismi vengono resi palesi e nessuno può più ignorare quel che è. Tutto ciò è aggravato ulteriormente da una complicità malata che impedisce ad Edgar e ad Alice di guardare in faccia la realtà.
La denuncia di Strindberg lascia così il posto, nelle mani di Dürrenmatt, ad una visione senza speranza che la regia di Franco Però rende appieno, sfruttando al meglio la grande libertà offerta dal testo, in un crescendo che diventa parossistico e si conclude in modo beffardo. Maria Paiato (l’ambivalente Alice), Franco Castellano (il violento Edgar) e Maurizio Donadoni (l’astuto Kurt) fanno ben emergere questo clima di odio crudele e reciproco, non più sopito o mediato da una conversazione solo apparentemente cortese, facendoli procedere inesorabilmente verso l’abisso che li aspetta in modo convincente e ben definito e mostrando, con il sorriso amaro presente nel lavoro del drammaturgo svizzero-tedesco, che la natura umana non riesce a salvare neppure la relazione matrimoniale dal combattimento senza fine che si è costretti a vivere fuori da essa.
Paola Pini