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Gen

17

“Silence”, un progetto tristemente incompiuto

  • 17 Gennaio 2017
  • Arte e Cinema
  • Simone Santi Amantini

“[…] E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando: e mi sovvien l’eterno […]”. Recita così una delle più celebri poesie della letteratura italiana e mondiale, l’Infinito di Giacomo Leopardi. Il silenzio è la porta che schiude all’eterno, all’infinito, ad una condizione che trascende l’umano. La fede, l’amore, nascono nel silenzio. E Dio, se si intende cercarlo, lo si trova nel silenzio. Perché lui lo abita in modo privilegiato, ed unico. L’ultima, corposa, opera di Martin Scorsese, Silence, cerca di raccontare e teorizzare tutto questo, dentro il Giappone intransigente del XVII sec., dove ogni spiraglio alieno, culturale e religioso, veniva estirpato fin dalle sue radici, perché intaccante un’identità definita, un terreno fertile solo per determinate specie di “piante”. Nella palude giapponese le “piante-cristiani”, che costituiscono un ingente numero di individui, convertiti per l’azione evangelizzatrice della Chiesa, messa in atto dai gesuiti, vengono perseguitati, messi nella condizione di scegliere il rinnegamento o la morte, torturati, e sottoposti ad incivili sofferenze ed umiliazioni.

Capite bene, il tema è vasto, le questioni molteplici, il confine labile, l’equilibrio necessario. Martin Scorsese, che desiderava questo progetto da 28 lunghi anni, lo affronta con una premura palpabile, e con discernimento, lo stesso dei suoi due “padres” protagonisti, Sebastião (Andrew Garfield) e Francisco (Adam Driver), ma forse con poco coinvolgimento e coraggio: quel coraggio proprio dei martiri. Un plus che ti fa andare oltre la narrazione delle cose, per sviscerare le profondità della Fede, e le indefinite sponde del silenzio di Dio. In questo dramma, perciò più storico che religioso, Scorsese si incammina per un percorso impervio e scosceso, ma non in scalata, bensì scendendo dentro l’uomo, dove la montagna è rovesciata e la cima è anche la sua base. Ma stranamente qua e là questo percorso si adagia su facili sentieri, aggrappandosi ad ogni sorta di strumentazione ed attrezzatura, senza correre il rischio di precipitare e cadere: quel rischio che corrono costantemente i padres, e con il quale convive soprattutto Sebastião, sempre sull’orlo di un oblio, che solo la speranza, e nemmeno la fede (che lo attanaglia di dubbi), può aiutare a superare. Così il programma poetico di Scorsese risulta a tratti scontato, debole, poco spontaneo e perciò macchinoso: la sceneggiatura di Silence, scritta dallo stesso Scorsese insieme a Jay Cocks, e anche la mano del regista, si incardinano in una narrazione abbastanza lineare, che dispiega tutto il ventaglio delle possibilità e delle variazioni sul tema, spesso dicendo ciò che deve dire già nei sui annunci e preparativi; l’attesa dell’azione si consuma con l’azione stessa: il silenzio di Dio, invece, è sospensione. Questo approccio prosaico e “da litania” che può reggere su un piano storico, sebbene non lo ispessisca, risulta oltremodo limitante su un piano religioso e su questioni di fede: i punti di vista usuali, inseriti per necessità di sviluppo della trama, o per donarle questo respiro così ampio, spesso emergono in dialoghi imboccati, e in situazioni didascaliche, e accentuano una banalità, che la portata dell’opera e del tema non si può permettere. Anche la figura ironica e da macchietta di Kichijiro, perfettamente funzionale come premessa del “cristiano clandestino” che emergerà nel finale come tema più significativo del film, con il suo reiterato ciclo di rinnegamento e confessione alleggerisce tuttavia il quadro, e a lungo andare lo riporta in superficie ogni volta che invece si era spinto laggiù nelle profondità di quella montagna che si diceva; allo stesso modo la mitizzazione di certi personaggi, come padre Ferreira – il cui possibile tradimento è la calunnia che i due suoi allievi sono venuti a smentire o avvalorare come primo obiettivo della loro missione -, o l’inquisitore Inoue Masahige, spoglia il racconto di verosimiglianza, facendolo scivolare, ancora una volta, in dinamiche da ring, che sembrano uscite da un videogioco o un film di supereroi: “fatemi affrontare l’inquisitore!”, “è impossibile che padre Ferreira si sia fatto sconfiggere da lui”, cioè a che gioco stiamo giocando? Così molti dialoghi che innalzano il discorso, che creano distanza per cercare l’unione sotto una verità oggettiva, esterna e tangibile, che si fa largo tra tutta questa violenza così a volte crudamente rivelata, e che fanno scorgere la luce della possibilità di incontro, di una convivenza tra culture, credenze, scemano nelle loro conclusioni, con appendici ironiche, e prive della consistenza percepibile che il confronto aveva creato tra i due (o più) dialoganti. I temi sono incasellati, e lo schema priva della sua magnificenza e naturalezza un film dalle immagini ricercate, con scenari dalla bellezza abbacinante, che come scrigni nascondono quel silenzio, quell’eterno.

È vero, a Scorsese si fanno le pulci. Ma il rammarico cresce quando nel suo prologo e nel suo finale, Silence dice più di tutto quello che ha raccontato nel mezzo. Quando si mostra per ciò che poteva e doveva essere: un cinema altissimo. Quando porta quella montagna da scalare in discesa dentro di noi, e non solo ce la mostra pesantemente presente nell’animo di padre Sebastião. Quando Scorsese ci mostra il cuore pulsante, bellissimo, ed essenziale, del suo film. Quando ci mette nella condizione di essere lì, di sospendere (appunto) giudizi e morali, e fare anche noi la scelta, e riflettere. Quando ci fa sentire la voce di Dio quando ci mostra un suo servo fedele che inciampa su quell’icona, rimando gestuale quanto mai perfetto del dubbio che si protrae fino all’ultimo istante. Quando riporta in scena padre Ferreira sotto le sue nuove vesti, e quando i due, maestro spirituale e allievo, si affrontano.

Silence, paradossalmente, doveva essere un The wolf of Wall Street sul silenzio di Dio: senza colonna sonora come è, senza quel frastuono assordante, senza tumulti, ma con lo stesso approccio sfrontato, sfacciato, smisurato, illimitato, esagerato: il silenzio di Dio è così, tenue ma vertiginosamente lacerante. “Un vento forte, impetuoso, schiantava i monti e spezzava le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. E, dopo il vento, un terremoto; ma il Signore non era nel terremoto. E, dopo il terremoto, un fuoco; ma il Signore non era nel fuoco. E, dopo il fuoco, un suono dolce e sommesso” (1Re 19, 11-13).

Voto 7 su 10

Simone Santi Amantini

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