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“Jackie”, solo cinema, nient’altro…

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Jackie non è un film storico. Jackie non è un biopic. Jackie è cinema, e solo cinema. Non un cinema asservito al personaggio e attento a restituirne una dimensione storica attraverso un approccio documentaristico, ma un cinema che prende quel personaggio e lo fa vivere dentro un racconto, dentro una narrazione, dentro una fascinazione visiva: la Jacqueline Kennedy di Jackie pare sia nata in sede di sceneggiatura, e non nel seno della Storia. Jackie tramanda una storia attraverso la Storia: se ne serve come matrice creativa e provocatoria, come amalgama per l’impasto, come qualcosa da piegare e stravolgere, da trascendere, a favore di un’affabulazione cinematografica. A Larraín interessa il cinema, e fare cinema, con una sapienza e un’intelligenza che oggi trovano pochi eguali: perché al passo con i tempi, perché profondamente legate al cinema di oggi e di domani, perché assolute padrone del linguaggio, così da poterlo lavorare, interpretare, veicolare. E farci bastare anche la sola bellezza, quella provocata dallo smarrimento o da sensazioni alle quali non ci interessa trovare una spiegazione.

Ma Jackie non è solo smarrimento: perché Larraín quel mistero cerca di afferrarlo in qualche modo. Afferra la donna, la moglie, la madre: la Storia, la storia, la dimensione pubblica e quella privata, il potere, il fascino, la debolezza. Il suo personaggio svetta, occupa ogni centimetro di schermo, anche quando è lasciato solo in totali così ampi da intensificarne la solitudine e l’inadeguatezza di fronte ad un evento drammatico così più grande di lei. Ed è il personaggio a scrivere la sua storia, a dirigere la narrazione, ad imporre uno sguardo, a trasformare quel mistero in mito, e egli stesso in icona. Jackie Kennedy abita le inquadrature, talvolta le domina. Jackie attraversa le inquadrature, frontalmente, senza paura: vestita in abiti diversi, colorati o neri, macchiati di sangue; vestita di stati d’animo diversi, colma di gioia, o inabissata di tristezza; vestita da sguardi diversi, con le guance che si ammorbidiscono per un sorriso, o che si incavano per il peso del gonfiore degli occhi e si ornano di lacrime. Natalie Portman non esiste: esiste Jacqueline Kennedy, moglie di John Fitzgerald Kennedy, probabilmente la first lady più famosa della Storia, altera e fiera, tanto regale, quanto umana. La donna che ha scritto la storia del marito, la donna che ne ha celebrato la grandezza nell’imminenza della sua morte, causata da quell’efferato atto di violenza, e nei quattro giorni successivi, che sono al centro del film, osando il desiderio di avere per lui un corteo e un funerale al pari di quello di Abraham Lincoln. La donna che ha amato l’uomo, la donna che ne ha raccolto la testa maciullata tra le mani e l’ha adagiata sul suo grembo, come per trattenerne la vita; che ha raccolto i pezzi della sua carne e li ha stretti in un abbraccio, che ha accettato quel sangue: l’ha mostrato ostinatamente perché tutto il Paese possa aver visto “quello che gli hanno fatto”. Jackie si guarda al medesimo specchio di un bagno di un aereo: prima la sua immagine riflessa prova un discorso diplomatico in lingua spagnola, poi il suo vero volto in primissimo piano viene pulito dal sangue del marito. La fotografia di Stéphane Fontaine la ritaglia dal contesto e la fa appartenere al contesto. Larraín cerca di trattenerla vicino alla sua macchina da presa, guardandola frontalmente, dall’alto, e dal basso, ma spesso la sua imprevedibilità coglie impreparato anche lui, che si trova costretto ad inseguirla, ad accettare le sue scelte. Ritrovarla, fermarsi, per accettare e comprenderne il dolore.

Jackie distrugge il biopic dal suo interno, con una colonna sonora dissonante e precipitante; con un montaggio che alterna tempi diversi, che strappa il passato (la favola della regina e il dramma della donna) per ricostruire una storia, in un’elaborazione del lutto che diventa ordinaria e quotidiana: Jackie racconta la vicenda ad un giornalista, ascolta consigli, ma non li accetta, piuttosto ne dispensa; fuma, ma non cede al pianto, lo lascia alle spalle o al fuori campo. Enigmatica e addolorata, forte e caparbia, testarda ma debole, e pienamente umana, Jackie cerca la verità che faccia da coordinata al mistero: lo fa per se stessa, e per noi. Ma nel cinema di Larraín l’unica verità è quella di un racconto della verità. La Camelot dei coniugi Kennedy. Jackie: la nostra Camelot. Crederci è un arbitrio che spetta solo a noi.

Voto 9 su 10

Simone Santi Amantini

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