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Ago

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Il baciamano di Santanelli, al Festival Segreti d’autore, a cura di Nadia Baldi

  • 12 Agosto 2017
  • Da Sapere..., Teatro
  • Carmela Lucia, Festival, Teatro

Serramezzana Cilento, 11 agosto 2017, Palazzo Materazzi

Un fondaco buio nel ventre di Napoli, una dimensione ctonia, sulfurea, in cui penetrano dall’esterno le voci dei vicoli, i miasmi e gli afrori neri di una città “porosa” (così come l’ebbe a definire W. Benjamin nel 1925), città brulicante di varia umanità e incomprensibile nel suo mistero. Sullo sfondo è evocato, alluso e anche mitizzato il tragico epilogo della Rivoluzione partenopea del 1799. Al centro della scena due protagonisti che si confrontano, (secondo la formula cara al teatro di Santanelli, a partire da Uscita di emergenza del 1979), una lazzara sanfedista e un gentiluomo giacobino, portato nel fondaco dal marito della “janara”perché venga ucciso e dato in pasto ai figli affamati. Due maschere tragicomiche, due culture, due lingue, due corpi così lontani, così diversi, allegorie di pulsioni contrastanti ma che, alla fine, si legano nel simbolico “segno” del “rito” del baciamano. In bilico tra eros e thanatos, tra pulsioni di morte e istinti erotici, si consuma il rito dell’incontro, si consuma una cerimonia di amore e morte, in un ribaltamento ironico e tragico, in un gioco di scambi di ruoli in cui il condannato a morte realizza con il baciamano il desiderio di chi sta per sacrificarlo.

La bellezza seduttiva del cerimoniale del baciamano che ha incantato la janara, davanti al Palazzo Reale, è tale che il rito viene raccontato come una “favola”. Il baciamano con la dama che scende dalla carrozza ha colpito l’immaginario della janara, attratta dalla gestualità e da tutto il complesso di segni di un rito che non le appartiene e che sogna, desidera, tanto più perché vittima della brutalità del marito violento e brutale: «È na cosa…ca l’uommene fanno…a li femmene…[…] Io personalmente,’ncuoll’a mme nun l’aggio maje pruvato…l’aggio surtanto visto ’e fa’. Na vota, annanze Palazzo Riale, nu signore, lustro e alliccato comme a te, arapette ’a porta ’e na carrozza, aiutaje a scennere a na signora bella come Maria Vergine, le facette ’a riverenza, e ll’appujaje nu vaso ’ncopp’ ’a mano. (delusa). ’A mano, a me, nisciuno maje me l’ha vasata! Maje! ». 11

Con il rito del baciamano che la janara e il gentiluomo mettono in scena (in un teatro nel teatro) è come se il gentiluomo volesse trasferire alla donna, ultima tra gli ultimi, un segno di una “paideia”, di un’idea di educazione che seppure appare segno di un’epoca ormai superata diventa, nell’utopia giacobina, gesto che libera dalla degradazione, dal contagio della peste morale e fisica, che assale un’umanità cancerosa fatta da quei “magnifici vinti”, che si spingevano fino al cannibalismo. Le pulsioni di amore e morte della janara si liberano, con la realizzazione di questo suo sogno, con un fiume di piacere che le attraversa il corpo, e che lei stessa, ignara di cosa sia veramente il piacere, non sa spiegare, se non con metafore teriomorfe (i brividi di piacere sono paragonati al formicolio che provocano le formiche). La “perdita di sé”, o, come dicono i francesi, la “piccola morte” libera per un attimo dalla pena di esistere, ma redime anche la povera janara dal suo status di degradazione, portandola dal rango di bestia e schiava a dama. Vittima dei soprusi di un marito-orco, che ubriaco le vomita addosso dopo averla posseduta, apprende, attraverso il veicolo della delicatezza sensuale del baciamano, un piacere diverso, sente per la prima volta la pulsione erotica, ne è padrona, e così si redime. La tragica impossibilità di risolvere i conflitti viene messa a nudo e viene sciolta, risolta nel rito del baciamano che diventa poi amplesso di piacere. Il passaggio dalla sfera della feritas all’humanitas attraverso il corpo le fanno acquisire così anche un diverso punto di vista, che la allontana dal mondo degradato e brutale in cui sembra normale la pratica dell’esofagismo. Il momento più drammatico si consuma quando il gentiluomo apprende che un suo figlio adottivo è stato sacrificato per sfamare altri popolani, e chiede a sua volta di essere sacrificato.

Sicuramente Il baciamano di Santanelli è ormai un classico del teatro contemporaneo, ricordiamo che fu presentato nel maggio del 1999 nel cortile d’onore del Palazzo Reale di Napoli, in occasione del bicentenario della Repubblica Napoletana del 1799 e che continua ad avere una grande fortuna, anche in Francia. Questa pièce si presenta come una favola nera, una storia reale e mitica al contempo, perché còlta dal basso, una parabola di due destini, che sullo sfondo della Rivoluzione Partenopea, sono rappresentai però spostando la rappresentazione sul piano del paradosso surreale, secondo una cifra stilistica costante nelle opere di Santanelli. Come afferma la studiosa Antonia Lezza, che ha dedicato importanti saggi all’analisi anche linguistica di quest’opera: «Il testo, insistendo molto anche sul tema dell’ineluttabilità del destino, pone l’uno di fronte all’altro due persone, un uomo e una donna , molto differenti tra loro, che sono espressione di due culture diverse, alta e bassa, colta e popolare. Seppure nell’originalità dell’argomento trattato emergono, in questo magnifico testo, alcune costanti della scrittura di Santanelli come lo spazio chiuso, claustrofobico, in cui si definisce l’azione, lo scontro/incontro di due personaggi, l’elemento evocativo (racconto o fiaba)». In un bilanciato mèlange di tragico, comico e grottesco, cifra stilistica della tradizione drammaturgica partenopea, ritorna, come in altre opere di Santanelli, la dimensione della stanza-prigione, che tanto ricorda il teatro di Pinter: l’esterno è avvertito come minaccia, con suoni acuti, urla di bambini affamati, voci contaminate da musiche macabre. Nella regia di Giovanni Esposito la voce del marito Salvatore evocato “in absentia” viene trasformata in una voce fuori campo (recitata dallo stesso Esposito) che intona un’antica melopea napoletana, con contaminazioni di suoni gravi e acuti che sulla scena creano un’atmosfera unica, da racconto nero. La sua voce, alle soglie dell’urlo arcaico, penetra sulla scena come una presenza sulfurea, roca, inquietante.

12Il sistema oppositivo alto/basso, luce/buio, che domina sulla scena appare funzionale a tradurre l’immagine dei bassifondi, degli spazi profondi non solo del fondaco, ma anche, evocandoli metaforicamente, degli spazi dell’anima, della sfera della coscienza. Merito di questo allestimento è quello di far risaltare il contrasto tra la carnalità e la visceralità della janara, Susy Del Giudice, e la grazia simulata, la pedanteria del gentiluomo illuminista, impersonato dal bravissimo Giulio Cancelli. Vestita di luridi stracci, spettinata, sgraziata e con i piedi nudi la formidabile Susy Del Giudice, con una recitazione intensissima, riesce, con una grande intensità vocale e mimica, a tradurre il senso fondamentale dell’opera, che è quel “sublime dal basso” che Santanelli vuole rappresentare attraverso la janara potente e fragile al contempo. Sospesa tra rassegnazione e anelito di vita, tra bestemmia e pulsione erotica, rappresenta nel suo delirio la negazione della maternità, la negazione della femminilità. E l’attrice è bravissima a tradurre con gesto, voce e corpo questa maschera tragica, e insieme grottesca e comica. Gli oggetti di scena, tegami sporchi di sangue, graticole, lame e pugnali traducono tutto il senso dell’orrido che appartiene a questa favola nera. Così come i due ombrelli che simulando le ruote della carrozza diventano sulla scena “segni di segni”, così poveri e al contempo così ricchi di evocazioni simboliche e metaforiche. La scelta originalissima dei costumi evidenzia il contrasto tra queste due culture, quella illuministica e “civile” del gentiluomo e quella degradata della popolana, sudicia e scalza (da notare il particolare della janara scalza che si contrappone al gentiluomo che calza le scarpe tipiche dei costumi del Settecento). E infine il tema dominante delle mani, presente nel testo sin dall’inizio: l’attrice concentra nelle mani sporche di carbone, nelle mani che maneggiano le lame tutto il suo essere, tragico, drammatico, assoluto.

Le mani diventano, metonimicamente, parte per il tutto di un mondo dove la donna, madre violenta, minacciosa, non è “accoglienza”, ma rifiuto, violenza, immersa com’è in un universo di brutalità e degradazione. Infine questa maschera tragica appare sulla scena altamente evocativa, perché ricorda la forza epica, le figure insieme reali e grottescamente dolorose dei lazzari di Striano ne Il resto di niente in particolare la caratterizzazione della serva di Eleonora de Fonseca Pimentel, la nobildonna di famiglia portoghese arrivata a Napoli da Roma nel 1760 e giustiziata sulla forca di piazza del Carmine il 20 agosto del 1799. Il baciamano è ormai un grande classico rivisitato e riadattato con grande maestria da una lettura di Giovanni Esposito che riesce a cogliere anche l’implicito, il non detto, la fantasia e l’irrazionale, il magma caotico delle pulsioni viscerali della donna. Un “sublime d’en bas”, colto sapientemente dal regista soprattutto quando si evidenzia con toni, ritmi e cadenze sapientemente modulate l’opposizione tra la lingua sorvegliata, formale del gentiluomo (“lingua del torchio”) e la “lingua del corpo”, viscerale, porosa e dialettale della janara.

Carmela Lucia

Foto Nicola Cerzosimo

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