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“Una patatina nello zucchero”. Commedia o tragedia?

Data:

12/31 dicembre 2017| sala Bausch | Elfo Puccini

Memore del monologo “Natale di Harry Acapulco” di Steven Berkoff che sempre Luca Toracca mise in scena qualche anno fa, questo testo di Alan Bennett non regge al confronto.

Ma certo non siamo qui per parlare di Natale anche se il periodo sarebbe adatto e di come un uomo lo viva nella solitudine mentre il mondo fuori si riunisce in famiglia, tra feste, regali e scambi magari fasulli di carinerie, ma di dipendenza affettiva, di rapporti madre/figlio al limite della patologia. Forse i temi si intersecano? Hanno qualcosa in comune? Forse sì, ma nel testo di Bennett rimane tutto un po’ troppo leggero e non detto, come se l’autore avesse avuto paura a presentare madri vampire come aveva fatto invece August Strindberg (mi spiace tirare in ballo il grande Autore svedese ma mi è venuto naturale) e figli senza coraggio, sottomessi in nome di un amore non-amore, incapaci di dare un taglio a quel cordone ombelicale che ormai è diventato un cappio pericoloso.

Non è chiaro nemmeno se tutti i personaggi siano affetti da malattia mentale, anche se il fatto che questo strano “inquilino di un piano non-identificato” ne incarna le personalità, fa presumere che lo siano, come espressioni della sua non-personalità, debolezza e paura.

La leggerezza nell’affrontare temi spinosi va bene, è un modo molto efficace di farli arrivare al pubblico ma qui la storia non è veramente divertente né veramente drammatica. Come se tra il sì e il no si preferisse il nì. E questo purtroppo è quello che accade in “Una patatina nello zucchero” che prende il titolo da una patatina che è finita nello zucchero in uno di quei volgari fast food dove le luci accecano, come le salse al pomodoro e il colore delle pareti.

Toracca non ha nessuna colpa, anzi è come sempre pieno di energia e di malinconia insieme, e la sua voglia di stare sul palco per raccontare storie in cui si possa rispecchiare e anche noi di conseguenza, si percepisce dall’inizio alla fine e ci piace e lo applaudiamo.

Ho preferito però i momenti in cui era solo Graham, che quell’entrare e uscire con voci stridule o arrochite negli altri personaggi come la madre e il suo spasimante, i partecipanti al gruppo di Igiene mentale, il dottore, la figlia.

E’ solo una fatica che non porta veramente allo sviluppo di nessun personaggio, mentre è bello quando Toracca si isola da tutti e parla di sé, con sé. Ma quei momenti, i momenti di Graham, sono brevi, troppo brevi per avere il tempo di affezionarsi a lui.

Il finale poi è troppo scontato e avrebbe avuto bisogno di un colpo di scena per risollevarci dal buonismo in cui Bennett si è addormentato.

Quindi onore a Luca Toracca per il suo impegno e la sua simpatia e il suo coraggio di artista, un no grande grande a Bennett. Qualche volta anche i “grandi” o che dir si voglia cascano come patatine nello zucchero. Basterebbe cambiare autore e “tutto brillerà di più”.

Daria D.

 

di Alan Bennett
uno spettacolo di e con Luca Toracca
traduzione Alessandro Quasimodo, Maggie Rose e Giovanni Tiso
collaborazione alla regia Ferdinando Bruni
produzione Teatro dell’Elfo
prima nazionale

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