Trieste, Politeama Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Miela. Dal 19 al 21 dicembre 2017
Dopo La fabbrica dei preti, tratto dall’omonima opera di Don Antonio Bellina e proposta a Trieste l’anno scorso e sempre nella sala del Teatro Miela, molto adatta per questo tipo di spettacoli, Giuliana Musso ritorna con Mio eroe.
È un ulteriore esempio di teatro di narrazione ed è altrettanto forte, ma con toni molto diversi: declinato totalmente al femminile, procede creando una trama che si sviluppa quasi in sordina per esplodere al centro, ma che solo alla fine si svela nella sua profondità.
Tre donne, tre madri al sepolcro dei propri figli, tutti alpini mandati in Afghanistan per svolgere il mestiere di soldato in “missione di pace”. Tre storie, diverse anche per il modo in cui vengono affrontate, ma accomunate da un unico infinito dolore, perché anche quando si gioisce per il ritorno del proprio figlio già temuto morto, si sa che c’è un’altra madre che piange il suo.
Sono tutte donne la cui forza non è imitazione di modalità maschili. Emerge da esse quella potenza interiore, caratteristica del loro genere e che spaventa davvero proprio perché naturalmente unita a una mitezza capace di trasformare la furia incontrollabile in determinazione lucida e intelligente.
La stessa forza necessaria a sostenere la crescita di un altro essere dentro di sé e a sopportare la violenza benefica finalizzata al parto, aiuta a sostenere e ad accogliere il dolore immenso che si prova al momento in cui si rivede il proprio figlio disteso in una bara e quella grazia, attraverso la quale si accetta di lasciar andare i figli in un mondo che potrebbe distruggerli, liberi di scegliere la propria esistenza, è anche in grado di generare poi una visione lucidissima, capace di vedere il gioco dei potenti e le manipolazioni che da esso derivano.
Siamo tutti immersi in esse, le accettiamo con maggiore o minor fatica, a seconda della consapevolezza individuale, ma nessuno di noi ne è escluso.
Giuliana Musso costruisce attraverso la parola tre ritratti dai colori diversi servendosi in modo convincente anche del dialetto, usato dalla prima, per la quale “Dio è un mistero e si nasconde, come una lucina che quando decide lei spunta fuori”, più che dalla terza e al centro c’è “la svalvolata”, quella che invece se la prende con Dio e che, se potesse, farebbe scendere “giù come missili” Gesù Cristo e Maometto per costringerli ad affrontare quel che l’hanno costretta a vivere.
Ricorda che l’Afghanistan è definito da tempo “il cimitero degli imperi”, denunciando in poche battute l’arroganza assoluta di chi crede che la propria guerra in quei luoghi sarà diversa.
La parola “pace” è usata pochissimo, ma la sua essenza profonda intride tutto in modo vero, reale, concreto, sostanziale, puro.
L’ultima delle tre è quella che appare più “razionale”. Ricostruendo la vita del figlio a partire dall’infanzia con i suoi giochi, i tanti libri letti, lo studio del violoncello prima amato e poi abbandonato, giunge a dire che “la guerra è cultura, non natura”. La scelta del figlio, ragionata e ponderata, si basava sulla convinzione che “Patria” è un concetto concreto, siamo noi.
È lei che, alla fine, affermerà che l’idea di guerrieri che combattono “il male assoluto” per far vincere “il bene assoluto” è una fantasia infantile, che questo tipo di eroi è mitico, che nella realtà non esiste.
Alla fine, sulla scena semplice e fortemente simbolica, Giuliana Musso dispone con cura due violoncelli, uno più grande dell’altro, uno a fianco all’altro e, in silenzio, se ne va.
Paola Pini