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Sanremo 69, un pendolo tra pubblico e qualità

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Squadra che vince non si cambia, o quasi: come spesso è accaduto nella storia del Festival della Canzone Italiana di Sanremo, quando un direttore artistico centra l’obiettivo (degli ascolti: quello del gradimento critico è secondario) il bis è obbligatorio. Sorte che è toccata ad uno dei cantautori più celebrati d’Italia, quel Claudio Baglioni che fino alla sua conduzione di Anima Mia era schivo e introverso e che invece dal programma storico con Fazio in poi è diventato un habituée del piccolo schermo: perché il suo Sanremo del 2018 era stato in qualche modo rivoluzionario, “nuovo” e di certo non in continuità con la liturgia che si andava ripetendo di anno in anno sul celebre palco dell’Ariston.

Una liturgia che il Claudione nazionale ha abilmente -e se vogliamo facilmente- spezzato grazie alla sua consueta e nota abilità nel mescolare alto e basso, con un’eleganza innata e con quella voglia perenne di percorrere vie impervie ma affascinanti: ed era impresa da far tremare i polsi affrontare un sequel. Perché in qualche modo ancora più difficile di rompere una tradizione è continuarla, con il rischio altissimo di ripetersi e soprattutto di cadere negli stessi errori dei suoi predecessori.

Ma Baglioni l’ha scampata, per un pelo, e per una considerazione che troppo poco, in questi giorni di dopo Festival, è stata al centro dell’attenzione mediatica: ovvero per essere riuscito nelle due cose che si imputavano da sempre a Sanremo, cioè non avvicinarsi ai giovani e non riuscire a portare su un palco che sembra maledetto i grandi artisti della tradizione pop italiana.

La vittoria di Mahmood, il successo social di Achille Lauro, la (pur risibile) polemica su un primo posto “rubato” ad Ultimo, la presenza massiccia di artisti fuoriusciti dai talent e da youtube, sono tutti fattori che convergono su un’incontrovertibile verità, ovvero che quest’anno la fascia d’ascolto -e quindi conseguentemente quella votante- si è notevolmente abbassata. La presenza, criticabile a torto o a ragione, di personaggi evanescenti come Federica Carta o Boomdabash o Ghemon, tralasciando la qualità intrinseca della proposta, ha fatto si che sul palco venisse realmente rappresentata la musica che si ascolta oggi neanche più in radio ma su Spotify e simili. C’è poi l’altra vittoria: l’incredibile sfilata -nell’arco di due stagioni) di volti noti dello scenario della musica leggera: Mannoia, Ligabue, Elisa, Mengoni, Cocciante, Antonacci, Pausini, Vecchioni, Negramaro, Nannini, Negramaro, Ramazzotti.

Che poi detrattori e haters abbiano voluto mettere l’accento sul testo criminale (Rolls Royce) o sulla bassa qualità di alcuni pezzi (i nuovi di Ligabue) poco importa: con Baglioni Sanremo è ritornato a rappresentare, nel bene e nel male, quello che la musica italiana oggi offre.

Discorso differente invece per la parte dello “spettacolo”: eguagliare o superare l’inaspettata alchimia fra la Hunziker e Favino dello scorso anno non era certo semplice, e di certo Bisio e la Raffaele non hanno superato il test. Ma va detto che però, a fronte di una evidente inadeguatezza del comico di Zelig, di una sua chiarissima poco scioltezza, c’era Virginia Raffaele a portare sulle spalle il peso di uno one woman show: la donna ha saputo bypassare con semplicità le difficoltà della diretta, coinvolgere in alcune gag obiettivamente frigide, cantare e presentare con estrema professionalità senza essere mai né banale né inamidata.

Ma per ultimo, su tutto, il Sanremo bis di Baglioni si è infilato, suo malgrado forse, in quella polemica che oggi più che mai sembra attuale: e che riguarda il peso della cultura, della conoscenza. Perché in un periodo storico dove il pressappochismo la fa da padrone, dove da più parti e soprattutto dai “piani alti” sembra incoraggiarsi l’improvvisazione e la mancanza di professionalità, il Sanremo di Baglioni ha ribadito che “il pubblico” (questa nera massa indistinta che, ricordiamo, in passato ha scelto Barabba) va tenuto in considerazione ma “la qualità” di più. E che la qualità non può che venire dalla voce autorevole di chi conosce e sa scegliere.

E, signori: scusate ma non è poco.

GianLorenzo Franzì

Tutte le foto sono di Sabina Filice

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