Lost in Translation – L’amore tradotto

Data:

(Lost in Translation)
USA, GIAPPONE  2003  98′  COLORE
REGIA: SOFIA COPPOLA
INTERPRETI: BILL MURRAY, SCARLET JOHANSSON, GIOVANNI RIBISI
VERSIONE DVD: SI’, edizione DOLMEN HOME VIDEO

Bob Harris (Murray), stella del cinema americano di mezza età e un po’ appannata, si trova a Tokyo per girare uno spot pubblicitario di una marca di whisky. Completamente solo in un Paese sconosciuto, annoiato e in crisi con la moglie, conosce la giovane connazionale Charlotte (Johansson), ospite nel suo stesso albergo, anche lei in crisi esistenziale e molto spesso sola (il marito fotografo è sempre fuori per impegni di lavoro). Tra i due, che si scoprono fortemente affini nonostante la differenza d’età, nasce subito una tenera amicizia, e forse qualcosa di più. La relazione  giunge rapidamente a un bivio, perché per Bob arriva il momento di ripartire…

Dopo l’esordio d’impatto de Il giardino delle vergini suicide (1999), la figlia d’arte Sofia Coppola (il padre è il grande Francis Ford) torna con un progetto in cui ha creduto fortemente (oltre alla regia, firma soggetto e sceneggiatura, ed è anche produttrice), e i fatti le hanno dato ragione: Lost in Translation rimane, a tutt’oggi, il suo miglior film, e la sua sceneggiatura è stata premiata con l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale nell’edizione 2004.

Con una scrittura scarna e rarefatta (dialoghi sporadici e pochi eventi notevoli), scandita da un ritmo lento e contemplativo, la regista racconta con pudore e delicatezza una storia che forse guarda, ma solo in parte, al classico Breve incontro (1945) di David Lean; come i due personaggi protagonisti di quest’ultimo, infatti, anche Bob e Charlotte vivono il loro “breve incontro” inatteso come un’opportunità di fuga da una vita insoddisfacente, un sogno di liberazione e di felicità che nessuno dei due ha il coraggio di portare a compimento, anche perché, almeno per quanto riguarda Bob, forse è troppo tardi…

Sullo sfondo o, per meglio dire, accanto ai due protagonisti – quasi come un terzo personaggio principale non accreditato, eppure ben presente e importante nell’economia della storia – il Giappone con le sue mille contraddizioni, cui Sofia Coppola guarda a tratti con un occhio documentaristico al cui interno le luci sfavillanti e gli eccessi di Tokyo si contrappongono alla quiete e alla spiritualità di Kyoto; un Paese che, nella sua profonda diversità rispetto alla cultura “occidentale”, non fa altro che acuire il senso di alienazione e solitudine provato sia da Bob che da Charlotte. Nell’unica sequenza movimentata del film, i due tentano di perdersi nelle follie della Tokyo notturna, tra sale pachinko (tipico gioco d’azzardo giapponese vagamente somigliante al nostro flipper), karaoke e locali di tendenza, salvo poi ritrovarsi di nuovo in hotel, a chiacchierare e confidarsi in camera (affrontando anche temi importanti), magari guardando La dolce vita di Fellini, che la tv giapponese trasmette in versione originale con sottotitoli.

Non mancano brevi intermezzi comici di alleggerimento, affidati ovviamente allo specialista Murray (come la scena della doccia troppo bassa, probabilmente tarata sulla statura media dei giapponesi, o quella del tapis roulant impazzito), che non stonano affatto nel clima generale della storia, rendendola anzi più fresca e piacevole.

Lost in Translation è uno di quei film in cui il non detto conta più del detto, e lo sguardo triste di Bob è più eloquente di mille parole nell’esprimere disagio, solitudine, rimpianto per il tempo perduto e chissà cos’altro. Anche l’amore tra i due, di qualunque natura sia (non è detto che, vista la differenza d’età, Bob e Charlotte provino lo steso tipo di sentimento…) lo si legge nelle loro espressioni – specie negli occhi sognanti di Charlotte – ben al di là di quanto si possa intuire da ciò che dicono. E non è certo un caso che la frase più bella e importante del film, che nello splendido finale Bob sussurra all’orecchio di Charlotte, non sia comprensibile a noi spettatori: possiamo soltanto immaginare, ma ciò che conta ci è già stato mostrato, quindi va bene così. Non solo: questo piccolo, grande espediente narrativo costituisce senz’altro il momento più emozionante del film, il suo cuore, l’apice poetico, la scena che chiude alla perfezione il cerchio sulla vicenda.

Con i grandi successi (come Ghostbusters) ormai alle spalle, Bill Murray si rilancia dopo anni opachi – il personaggio di Bob un po’ gli assomiglia – scegliendo il cinema d’autore e firmando almeno un paio di interpretazioni memorabili: oltre alla presente, non va dimenticata quella offerta nel delizioso Broken Flowers (2005) di Jim Jarmush; in entrambi i casi l’attore eccelle nella sua comicità malinconica e “in punta di piedi”. Di grande intensità e tenerezza anche la prova di Scarlett Johansson, qui ancora ragazza “acqua e sapone”, molto distante dai ruoli d’azione che verranno nei blockbuster ispirati ai fumetti Marvel (sarà la Vedova Nera in Avengers e Captain America).

 Tra i brani della ricercata colonna sonora, due ottimi esempi del cosiddetto french touch (movimento musicale dance-lounge-pop francese che ha vissuto il suo massimo splendore tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila) come Alone in Kyoto degli Air e Too Young dei Phoenix (il cui cantante, Thomas Mars, è il marito di Sofia Coppola).

Lost in Translation è un’opera semplice ma profonda, di quelle che lasciano il segno già dopo la prima visione. Un film perfetto per una proiezione sotto le stelle del cielo d’estate.

Francesco Vignaroli

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