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La recensione su “Joker”, di Todd Philips. Di Massimo Triolo

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Joker è uno schizofrenico psicotico che a età più che matura vive ancora con l’anziana madre ed è costretto a seguire umilianti sedute psichiatriche senza frutto – ricevendo sempre, come per un copione usato, le stesse domande e laconici commenti contraddistinti da piatta, atarassica indifferenza –, allo scopo primario di vedersi assegnati se non altro gli psicofarmaci da cui è ormai dipendente. In una Gotham cupa e corrotta, dove la forbice sociale tra ricchi e disagiati si allarga, la disoccupazione cresce assieme alla delinquenza, e i politici affossano lo stato sociale con tagli pesanti alle spese – così simile alla New York di Taxi Driver: spazzatura ammonticchiata a ogni angolo di strada, un’atmosfera sulfurea, decadente e caotica –, vediamo aggirarsi per le strade un uomo solitario e sfiancato, deluso e esulcerato da piccoli e grandi ricatti, vessazioni e violenze subiti passivamente, anonimo e senza voce, il cui corpo consunto e curvo, come gravato a ogni passo dal fardello insostenibile di una stanchezza senza fondo, è la manifestazione palmare del disagio che vive, oltre che un’occasione formidabile per l’estro attoriale impareggiabile di Joaquin Phoenix che lo fa scuotere da tremiti, danzare in modo sinuoso, vestire d’impaccio come di scatenata istrioneria, bruciare di rabbia o indugiare con tenerezza, cambiando la sua maschera in modo camaleontico e sorprendentemente convincente. Egli è un antieroe solitario e alienato che cammina sul filo sottile di un equilibrio pronto a incrinarsi, e la cui mente descrive una spola continua tra realtà e dissociazione psichica. Tanto per cominciare egli si traveste, e non solo materialmente, ovvero vestendosi da pagliaccio per guadagnare pochi soldi allietando i piccoli pazienti di un ospedale o esibendosi per strada, ma anche e soprattutto viaggiando con la fantasia per incarnare, anima e corpo, la propria visione ideale: un meccanismo di proiezione di se stesso nei panni di vincente e tesoriere di una vita più felice (la madre lo chiama Happy e sembra un paradosso e un insulto alla drammaticità della propria esistenza); ed egli ride lungo tutta la pellicola, ma mai una sola volta in modo gaio e liberatorio, solo compulsivamente e come reazione nervosa irriflessa a situazioni di disagio … Il mondo di Arthur è costellato di fughe psichiche dalla verità dei fatti, verso zone insulari in cui sogna di sé come di un mattatore che appare in televisione nel ruolo di brillante comico (citazione quasi pedissequa da “Re per una Notte” di Scorsese), un dongiovanni che conquista l’avvenente vicina di casa, ma resta un frustrato le cui ambizioni collidono con una realtà cruda di emarginazione e disincanto e i cui sogni di riscatto restano solo chimere.
Arthur, nome d’arte “Joker”, deve subire la più barbara nequizia prima di deflagrare in un grido di rivolta e in un riscatto d’identità attuando la cessazione della postura passiva che gli è ingenita, per approdare alle sanguinolente azioni di vendetta che sono soprattutto, ai suoi occhi, il giusto contrappasso per tutti coloro che mostrano arroganza e si fanno strada a gomitate nella vita (come i proverbiali “lottatori” di Svevo): coloro che hanno una scala di valori infima e ridotta all’osso, persone refrattarie a solidarietà e moti di empatia, per le quali il prossimo è solo un ostacolo sulla propria strada e, secondo un darwinistico principio sociale, colui che soccombe a fronte del loro “naturale” prevalere. E’ significativo che se la strada è l’Agone in cui si dibattono vite in una continua belligeranza per soverchiare il prossimo invece di raccogliere il suo appello di aiuto, in cui non esistono gesti di “umana pietà”, simmetricamente il mondo dei Media è l’arena circense in cui esiste una sola regola: la visibilità, anche a costo d’incarnare modelli di carta pesta, perché più essi sono finti, più sono posticci, più il pubblico sembra acclamarli e volgere ad essi una sorta d’istinto di immedesimazione e investitura del ruolo preciso di modelli desiderabili. Qui a valere è una dimensione non lineare del desiderio: ovvero un desiderio mimetico, in cui è il posto nella graduatoria sociale dei fabbricatori di consensi, dei mezzibusti televisivi, degli idoli dello schermo – quello stesso che il pubblico conferisce loro – a valere come monolitico modello da mimare e imitare scimmiescamente, e non qualcosa di intrinseco alla qualità di quanto essi hanno da dire, il loro ruolo di visibilità scavalca la quiddità del loro valore intrinseco ed è ciò che è desiderabile in quanto tale. Le star della televisione sono coloro che “possiedono” per eccellenza e come tali non conta tanto se la cosa posseduta sia auspicabile secondo una scala valoriale perspicua e razionalmente giusta – parliamo dell’apparire -, ma conta il fatto stesso di detenere quel possesso: ecco che vengono deificati e si offrono come modelli-desideranti il cui desiderio stesso è ciò che imita il pubblico; questo principio, che il film sembra suggerire e ribadire, colpisce dritto al cuore, mortalmente, il principio del moderno individualismo in cui Il Soggetto muove direttamente verso oggetti del desiderio fissi e qualitativamente avvalorabili. Abbiamo qui due volti del Potere: chi lo detiene con pugno di ferro sancendo divaricazioni sociali sempre più pesanti e sa che per conservare il proprio prestigio deve apparire il più possibile, le classi sociali privilegiate, e infine una immensa massa amorfa di sopraffatti e derelitti che è una polveriera pronta ad esplodere qualora, però, la propria presa di coscienza sociale sia guidata da un modello alternativo a quel potere vessatorio, potendo agire, anche qui, per imitazione ma in modo catartico e non conservativo della propria subalternità. Paradossalmente è proprio un signor nessuno come il protagonista della pellicola che finisce per fornire questo modello alternativo e ancora secondo un meccanismo di mimesi, ma in questo caso di violenza mimetica. E’ il primo che scaglia la pietra, che dà l’innesco e il sanguinoso precedente che legittimano l’altrettanto sanguinosa rivolta; e lo fa proprio in diretta televisiva, ospite prima schernito, vero “fenomeno da baraccone”, e che si ribella poi nel solo modo possibile, raggiunto un punto di non ritorno, ovvero radicalmente e drammaticamente dialettico e fattuale assieme: il fuoco di risposta di Joker è una lunga arringa sulla capziosità e la vena prevaricatrice degli infingimenti del potere e assieme un fuoco d’arma, un atto di violenza che inscena vendetta verso coloro che detengono tutta la visibilità e hanno l’ultima parola su ogni fatto di cronaca o spettacolo – spesso le due cose assieme – decidendo che ad apparire debbano essere solo personaggi conformi all’ipocrisia della macchina televisiva e ai suoi giochi preconfezionati o da deridere e vilipendere, trasformare in altrettante macchiette qualora “diversi”. Joker sembra essere il pagliaccio nietzschiano che getta giù dalla corda l’”uomo delle mosche”, il suo atto di rivolta è già in se stesso un simbolo ancora prima di divenirlo per la gente comune che lo accoglie a proprio eroe: è il simbolo di una rivolta privata che vuole girare la tragedia della propria vita in personale commedia – come più volte Arthur asserisce di voler fare a persone che non gli badano o lo scherniscono –, ciò che della sua tragica vita risultava commedia per gli altri, si rovescia in commedia per sé e tragedia per chi lo osteggia. Le lunghe scene in cui Joker danza sulla colonna sonora di vecchi musical sono il sinestetico trionfo di ciò che dai musical era proprio escluso, in quanto celebrazioni sfacciate di un agio e una felicità, che erano negate ai più ma inscenate in maniera programmaticamente consolatoria in forma di spettacolo: il campo di percezione del trionfo di ciò che è vistoso intercetta quello di una vita anonima e tutt’altro che appariscente, e un Potere, soggetto plurimo e sfacciatamente celebratore di sé, lascia il posto al soggetto singolo di un sé celebrante la forza e il potere della propria individualità. Per contrasto coloro che si rivoltano acquisendolo a icona e arma sociale, sono una massa acefala non composta dalla somma di tante diverse individualità che danno voce a se stesse, ma un unico, indistinto corpo violento che si abbatte come un pesante maglio sui simboli del Potere: macchine di lusso, vetrine, pattuglie di polizia, ricchi passanti in fuga. Più volte, nel corso del film, il protagonista passa inosservato fino ai cancelli e alle stanze del Potere, come avviene negli episodi in cui riesce ad avvicinare prima suo figlio e poi il Primo Ministro in persona, o quando, in una delle scene più geniali del film, da pagliaccio passa inosservato in vagoni affollati di pagliacci: l’unica volta forse, in cui non veste il ruolo (vistoso) di pagliaccio, ma si limita a coincidervi normalizzato dall’immagine di chi ripete la sua immagine prototipa.
Niente appariscenti effetti speciali, per questa pellicola ispirata al personaggio omonimo dei fumetti Marvel, ma la messa in scena della cronaca di una vita nascosta che non porta alla luce tanto se stessa, quanto lo sforzo stesso del portare alla luce il suo immenso sommerso: come l’abuso subito nell’infanzia da Arthur, a suo modo vittima innocente di una società malata e violenta che celebra i vincenti perché impunibili e impuniti, e punisce i deboli perché colpevoli di non essere vincenti.

Massimo Triolo

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