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In the Mood for Love (Huayang nianhua)

Data:

HONG KONG/FRANCIA 2000 94′ COLORE
REGIA: WONG KAR-WAI
INTERPRETI: TONY LEUNG CHIU-WAI, MAGGIE CHEUNG, REBECCA PAN, SIU PING-LAM
VERSIONE DVD: SI’, edizione EYESCREEN HOME VIDEO

FU UN MOMENTO IMBARAZZANTE, LEI SE NE STAVA TIMIDA A TESTA BASSA PER DARGLI L’OCCASIONE DI AVVICINARSI, MA LUI NON POTEVA, NON NE AVEVA IL CORAGGIO, ALLORA LEI SI VOLTO’ E ANDO’ VIA” (dall’inizio del film)

QUANDO RIPENSA A QUEGLI ANNI LONTANI, E’ COME SE LI GUARDASSE ATTRAVERSO UN VETRO IMPOLVERATO: IL PASSATO E’ QUALCOSA CHE PUO’ VEDERE, MA NON PUO’ TOCCARE; E TUTTO CIO’ CHE VEDE E’ SFOCATO, INDISTINTO” (dalla fine del film)

Hong Kong, 1962. Per pura coincidenza il signor Chow, giornalista, si trasferisce insieme alla moglie in un appartamento vicino a quello in cui, nello stesso giorno, si trasferiscono la signora Chan, segretaria in un ufficio, e il marito. Dopo aver scoperto che i rispettivi coniugi sono diventati amanti, Chow e la signora Chan iniziano a frequentarsi, senza però intraprendere a loro volta una relazione, malgrado la nascita di un forte sentimento reciproco. Per evitare di cedere, Chow si trasferisce a Shangai, e i due non si rivedranno più. Quattro anni dopo, seguendo un’antica tradizione, Chow affida ai muri del tempio di Angkor Wat, in Cambogia, un segreto che vuole preservare per l’eternità…

Dopo essersi fatto notare per i notevoli Hong Kong Express e Angeli perduti, con In the Mood for Love il regista cinese Wong Kar-Wai (1958) trova il capolavoro e, con esso, la definitiva consacrazione internazionale, certificata da alcuni importanti riconoscimenti al Festival di Cannes 2000 (tra cui il premio per il Miglior Attore a Tony Leung). Il progetto originario prevedeva un film costituito da tre episodi, di mezzora circa l’uno, aventi come tema principale il cibo e la sua influenza nella vita delle persone – argomento di cui è rimasta qualche traccia nel film -, ma il regista si è talmente appassionato a questa storia da accantonare gli altri due episodi e concentrarsi totalmente su quello che sarebbe poi diventato In the Mood for Love: visto il risultato, un cambio di programma davvero provvidenziale!

A dispetto del titolo, il film non è un classico dramma sentimentale o, almeno, non soltanto. E’ una raffinata storia in cui i sentimenti umani costituiscono la tessera principale di un mosaico ben più complesso che, nelle intenzioni del regista, vuole essere il ritratto realistico e insieme nostalgico di un mondo che non c’è più: la Hong Kong dei primi anni Sessanta del secolo scorso. Una città in cui i molti esuli cinesi provenienti da Shangai, in fuga dopo la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (1949), hanno trovato una nuova casa, costituendo una comunità solida ma – nel periodo in cui è ambientato il film – ancora nettamente separata da quella cantonese, cioè dagli abitanti originari di Hong Kong. Per Wong Kar-Wai, cinese di Shanghai trapiantato a Hong Kong, In the Mood for Love è un’occasione per rievocare le proprie origini. Un omaggio alle proprie radici compiuto attraverso un’autentica impresa: raccontare in maniera emozionante una storia che affronta tematiche universali (l’amore, il tradimento, il dolore, l’assenza, il desiderio, l’insoddisfazione, l’irreversibilità del tempo e delle decisioni) innestate in un contesto spaziotemporale ben definito. Unendo universale e particolare, Wong ci mostra com’erano vissuti i sentimenti dalle persone nella Hong Kong del 1962: questo è il cuore tematico del film.

E com’era, dunque, l’Amore – nel significato più ampio possibile – in quel luogo e in quell’epoca? Riusciamo a farcene un’idea precisa grazie alla straordinaria prova dei protagonisti Maggie Cheung e Tony Leung (due tra gli attori preferiti dal regista), entrambi magistrali nella loro recitazione composta e misurata, ma al tempo stesso intensa e circondata da una fortissima aura mistica. Nella Hong Kong perbenista di inizio anni Sessanta quello delle passioni del cuore era un mondo nascosto, sommerso, ma non per questo meno intenso e doloroso; esternare i propri sentimenti era giudicato sconveniente, perciò il pudore e la riservatezza erano alla base delle regole comportamentali, anche nel caso di una relazione platonica – almeno, così pare – come quella mostrata nel film. Per questo Wong, con una sceneggiatura “sottile” e ricca di ellissi (per fare un esempio: non vedremo mai i volti dei due coniugi traditori), e senza un vero e proprio copione, ha imposto ai suoi attori una recitazione essenziale e basata prevalentemente sul linguaggio corporeo, anziché sulle parole; In the Mood for Love è perciò un film “silenzioso”, dove gli sguardi, i gesti e il modo di camminare sono più eloquenti dei dialoghi.

Se gli attori parlano poco, la musica in compenso “parla” moltissimo, rivestendo un ruolo fondamentale nella storia. Vero e proprio simbolo del film, nonché Leitmotiv dell’opera, è senz’altro il meraviglioso valzer Yumeji’s Theme del compositore giapponese Shigeru Umebayashi (che aveva scritto il brano per un film del connazionale Seijun Suzuki). Il tema si adatta come un guanto a In the Mood for Love, e ne scandisce il ritmo alla perfezione: del resto, il signor Chow e la signora Chan si muovono insieme, lentamente e in armonia, proprio come due ballerini impegnati in un lungo valzer, e questo valzer è proprio il film… L’altrettanto ricorrente presenza del Nat King Cole “spagnolo” (quello di Quizas, quizas quizas e Aquellos ojos verdes) è un preciso riferimento storico (o, se preferite, autobiografico) inserito dal regista: nella Hong Kong di quel periodo la maggior parte dei musicisti proveniva dalle Filippine, paese fortemente influenzato dalla cultura ispanica, quindi era piuttosto comune sentire certe canzoni “latine” in giro. Il compito di scrivere partiture originali è stato affidato a Michael Galasso, che lascia il segno con il toccante violoncello di Angkor Wat Theme. E’ rimasta fuori dal film, invece, perché giudicata da Wong poco attinente al contesto dell’opera, la sensuale versione dello standard I’m in the Mood for Love incisa da Brian Ferry (contenuta nell’album As Time Goes By del 1999), utilizzata in alcuni trailer ufficiali e promo.

La presenza di elementi ricorrenti non riguarda solo la musica, ma anche le claustrofobiche e anguste ambientazioni (l’appartamento, il corridoio, l’ufficio, uno scorcio di strada…) mostrate da inquadrature “bressoniane” (per definizione del regista stesso, che ricorre spesso a primi piani “alla Bresson”) che sembrano opprimere i personaggi, quasi schiacciandoli. La ripetitività è dunque un altro elemento chiave del film: Wong si serve di essa per “MOSTRARE IL CAMBIAMENTO ATTRAVERSO CIO’ CHE NON CAMBIA”, dove per cambiamento si riferisce al fluire del tempo e degli avvenimenti, che riusciamo a percepire soltanto attraverso piccoli indizi, come gli abiti – un campionario di meravigliosi vestiti tradizionali – della signora Wong oppure i cibi messi a tavola (la cucina di Shanghai è molto legata ai “prodotti di stagione”, perciò varia notevolmente durante l’anno).

Ma è anche l’incombere della Storia a esprimere il trascorrere del tempo. Il 1962 è un anno cruciale nel processo di progressiva decolonizzazione nel Mondo (soprattutto in Africa), mentre nel 1966, anno in cui si chiude il film, in Cina parte la Rivoluzione Culturale di Mao e la Cambogia riceve la visita dell’allora presidente francese Charles de Gaulle, come mostrato nello spezzone di cinegiornale d’epoca inserito all’inizio della sequenza finale. La Storia irrompe all’improvviso e per un momento interrompe l’incanto della finzione, preludio allo splendido finale cambogiano che, distaccandosi nettamente dal resto del film, conferisce a quest’ultimo una profondità ancora maggiore.

A proposito di finale: nella ricchissima sezione dei contenuti speciali disponibili nell’edizione a due dischi – consigliatissima – del film si possono vedere gli oltre trenta minuti di scene inedite tagliate dal regista in sede di montaggio, tra le quali c’è anche il finale alternativo in cui Chow, prima di compiere il “rito del segreto”, incontra di nuovo la signora Chan proprio ad Angkor Wat. Una trovata un po’ forzata, e per questo scartata da Wong, che ha rinunciato pure alla coda ambientata nel 1972 (comunque interessante), oltre a una sequenza nella camera d’albergo di Chow (che rimette in discussione il rapporto con la signora Chan) e a un’altra relativa al periodo di Singapore.

Alcune curiosità, per concludere. Gli esterni del film sono stati girati a Bangkok perché, secondo Wong, né Hong Kong né Singapore, ormai troppo moderne, disponevano più di luoghi adatti a ricreare l’atmosfera del passato, mentre la capitale tailandese ha inaspettatamente offerto al regista questa opportunità.

Il titolo cinese del film è traducibile come “L’età della fioritura” ed ha valenza doppia, essendo sia una metafora della bellezza femminile che un’espressione per indicare l’epoca dello splendore perduto – gli anni Sessanta – di Hong Kong. Il titolo del seguito di In the Mood for Love, ovvero 2046, è invece un preciso riferimento al numero della camera d’albergo affittata da Chow per incontrare la signora Chan al riparo da sguardi indiscreti.

La splendida fotografia del film è frutto del lavoro di due direttori, avvicendatisi in corso d’opera per questioni produttive: Christopher Doyle (abituale collaboratore di Wong) e Mark Lee Ping Bin, entrambi premiati a Cannes proprio per In the Mood for Love.

I due monologhi recitati dalla voce narrante in apertura e chiusura del film – riportati integralmente all’inizio dell’articolo – sono tratti dal libro Intersection (1972) dello scrittore Liu Yichang.

Francesco Vignaroli

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