FAVOLACCE, LA SECONDA MEMORABILE OPERA DEI FRATELLI D’INNOCENZO

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Ci sono film di cui ti piacerebbe un sacco scrivere, poterli raccontare, testimoniarne la bellezza e le emozioni provate durante la visione. Ma non ti riesce. Non riesci a trovare le parole giuste, adatte. Fissi lo schermo del computer, come chi vi scrive sta facendo in questo momento, e tiri giù tre/quattro righe di preambolo, per giustificarti, per chiedere perdono se non sei capace, per mettere le mani avanti, o per imprimere sulla pagina virtuale battute che ti facciano guadagnare tempo per pensare.

Ma, ecco, è finito anche quello. E le parole continuano a non emergere, se non in modo confusionario, disorganico. Dargli una forma e una struttura è pressoché impossibile. Allora non resta che abbandonarsi ad un flusso di coscienza, mentre Favolacce ha già ottenuto la sua vittoria su di te, pseudo-scrittore di Cinema. E continua a sedimentare dentro il tuo animo, continua a scavare, con la forza dirompente di una piccolissima goccia d’acqua che incessantemente sbatte sulla roccia, e la perfora, aprendo varchi larghi, spazi vuoti. Che ora dovresti riempire, ma non sai con cosa.

Il secondo film dei fratelli D’Innocenzo ti lascia così, disturbato e vuoto. È un colpo allo stomaco, che ti arriva da lontano: lo scorgi fin da subito, sai che arriverà, ma attendi e speri di no, poi invece arriva, e nonostante tutto ti trova impreparato.

Favolacce è un film horror, racchiuso e falsificato dentro il recinto dell’opera drammatica, del realismo impresso su pellicola: in un sobborgo residenziale alla periferia di Roma si incrociano vita e destino di quattro famiglie, genitori e figli. Qualcosa cova nascosto, un orrore latente e terribile, un senso di disagio e frustrazione, ma è un logorio lento, una tortura lunghissima, come la goccia d’acqua che trapana la mente, in un’antica e tremenda pratica orientale. Favolacce è una fiaba, anche: è un racconto ispirato da una storia vera, una storia vera ispirata da una storia falsa senza ispirazione, così ci racconta la voce narrante nell’incipit del film. È il racconto di legami umani che si consumano, di esplosioni trattenute, di corpi che si muovono ciondolandosi interamente o dondolando parti di sé, e bocche che masticano. È una fiaba di mostri con sembianze umane. Pagine di diario innocenti e semplici, che attraverso parole puerili e ingenue, sintassi elementare, raccontano la violenza dell’indifferenza.

Favolacce è un film scritto da dio da due autori dal talento purissimo, che strutturano con le immagini una narrazione sbalorditiva, esemplare. Lo spettatore è lì, legge quel diario, quella storia che si rivela, sente stonature e storture. Aspetta. Favolacce ti guarda da lontano. Lo vedi. Sta arrivando. Poi inizia a toccarti, ti sfiora, ma avverti qualcosa che non va, quel contatto è tutt’altro che piacevole, inizia a graffiarti, ad addentrare le unghie sotto la pelle. Favolacce è abrasione, scoramento, erosione. E poi, asportazione, estirpazione, amputazione. Processi lenti, lentissimi. Sedimentazione.

Vuoto.

Dentro un Cinema a regola d’arte, dove il filmico diventa introspezione psicologica, sguardo affilato, grottesco, maledetto.

Favolacce è un ordigno esplosivo costruito davanti ai tuoi occhi, e di cui non ti eri accorto. Poi, troppo tardi, fingi di non aver visto. O non credi alla realtà. Eccolo il Cinema.

È un’esplosione. E, infine, devastazione.

C’è il Cinema, in tutta la sua potenza, che rivendica tutto quanto lo spazio del racconto possibile. E allora finiscono anche le parole. Non restano nemmeno più queste battute inadeguate, scritte, a casaccio, fino a qui.

Favolacce è un film di cui non si può scrivere (o che ti impedisce di scrivere).

Vuoto.

Simone Santi Amantini

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