Udine, Parco Sant’Osvaldo, Lunatico festival e Disturbo?, 10 settembre 2020
“Silenzio” non è uno spettacolo facile, ed è dotato di una potenza lieve e duratura, risolutiva, tellurica, femminile.
C’è in esso una eleganza sostanziale, raffinato per quanto è scarno, costruito attraverso un intersecarsi di linee narrative frammentate che, insieme, creano la trama.
Tre personaggi in un’unica attrice, Elisa Menon, di rara bravura, sola in scena; tre donne, tre età diverse, un’unica storia che si dipana, una storia di violenza che incombe sul pubblico senza mai esplicitarsi veramente, presenza oscura in attesa della sua vittima oltre il limitare di un bosco fiabesco, mitico. Non la vediamo ma ne percepiamo il pericolo e da un luogo ben delimitato come un paese, reso manifesto anche dall’uso del dialetto, ci si libera dai vincoli temporali. Si narra di qualcosa che non si può dire e che avviene da tempi immemorabili.
È un’opera aperta alla decodifica di ognuno di noi, si scontra con il nostro vissuto e parla ad altri silenzi: quelli noti a noi soli. Silenzi che dialogano con chi già li conosce li ha praticati, li ha subiti, ci è vissuto dentro, ne è stato risucchiato.
È talmente delicato, mai esplicito, che i momenti più drammatici non colpiscono per la loro violenza, ma grazie all’intensità interpretativa, a una fisicità capace di interiorizzare il testo e di sublimarlo in gesti, risultato di un controllo sapiente: ecco la vecchia ricurva, e la maschera dai lineamenti decisi che la identifica è solo parte della grande trasformazione che avviene nel volto di Elisa Menon; la bambina è vestita nello stesso modo della bambola e la recitazione dell’una e dell’altra sono altrettanto ben definite.
Quel che domina è il non detto, l’implicito, le metafore abbondano e solo a sprazzi emerge qualche rara battuta più chiaramente espressa, ma è un attimo, in perfetta concordanza con un titolo che, proprio grazie alla struttura drammaturgica porta con dolcezza lo spettatore verso il desiderio di farsi attento, disponendo il proprio animo alla ricerca di definire quel che le parole non possono dire.
Ed ecco che i due opposti si incontrano, coincidono, entrano in dialogo, si sostengono vicendevolmente e il Silenzio inizia a raccontare.
La levità con cui tutto questo avviene può risultare di non agevole accesso a chi la violenza o lo stigma che ne deriva non ha subito, ma chi ne ha fatto esperienza o l’ha soltanto sfiorata, è capace di accogliere quel che vede in scena per consolarsi, alleviare la sofferenza che sta lì, nascosta in un angolo e che, anche se muta, si fa sentire.
Il primo ad accusare il colpo di emozioni così estreme è il corpo. Ne assorbe l’urto andando in risonanza con ciò cui Elisa Menon dà vita rendendolo idealmente visibile. Può essere necessario un periodo di decantazione perché tutto questo venga tradotto dalla mente.
Alla fine si viene colti dalla rara percezione della durata, quella cantata da Peter Handke.
Durata si ha quando
in un bambino
che non è piú un bambino
– e che forse è già un vecchio –
ritrovo gli occhi del bambino.
“Silenzio” ha debuttato a Udine in un luogo molto speciale, il Parco di Sant’Osvaldo sede, fino al 1996, dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale ed è stato promosso dai due festival “Lunatico” e “Disturbo?”.
Paola Pini