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REVONTULET O FUOCHI DELLA VOLPE SU TORINO

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Qualcuno, forse si lamenta dell’ora legale, poiché dovrà alzarsi un’ora prima… pensate invece ai cittadini del Nord Europa che nei mesi più caldi, la luce solare illumina le loro città dalle cinque del mattino sino a superare di gran lunga la mezzanotte… artica. Unito a uno scenario a dire poco sorprendente se non spettacolare del “northern light”, questo è ciò che capita regolarmente in quelle terre con l’aurora boreale, fenomeno naturale che da secoli e forse più… millenni affascina l’uomo.
L’Aurora polare, spesso definita come aurora boreale o australe, a differenza di come la definì nel 1600 Galileo Galilei col nome di boreale aurora o alba settentrionale, poi nel 1621 fu nuovamente modificata dall’astronomo Pierre Gassendi, invertendo i due nomi. In termini scientifici ci sono voluti circa venticinque secoli per una corretta definizione su questo avvenimento, iniziando dalle prime ipotesi che si fecero sull’origine, trovando testimonianze scritte sulle “Revontulet”, da parte di Plinio il Vecchio e Tacito e ancor prima da altri o nel libro di Ezechiele nella Bibbia, sino agli indiani d’America.
Spiegata da eminenti fisici della magnetoidrodinamica, l’energia che è sprigionata e dispersa durante l’esplosione ed eruzioni solari, le cui particelle sparate nello spazio, incontrano lo scudo magnetico terrestre, questa forza ci viene mandata sotto l’incantevole forma di aurora boreale. Se non escludiamo i paesaggi innevati invernali, le stagioni migliori per assistere all’evento celeste, sono l’autunno e la primavera.
Se non fosse per l’inquinamento luminoso chiamato “progresso”, potremmo qualche volta osservare il fenomeno anche dal nostro territorio… come successe in un tempo passato… già conosciuto per i torinesi quella indimenticabile notte tra il 4 e il 5 febbraio del 1872. Il cielo si tinse di colori e sfumature da non essere in grado di descriverle, amalgamandosi prese una conformazione scenografica di aurora boreale che perdura nel corso dei secoli, anche in Italia ci furono altri avvistamenti ed ogni fenomeno che si manifestava non è mai uguale al precedente essendo tutti dissimili, ecco forse il vero motivo del perché li rende affascinanti. Si racconta tra diverse esposizioni scientifiche, scritte da personaggi di cattedra che non fu un evento poi tanto clamoroso quelli da noi citati, in quanto tra il Settecento e l’Ottocento molte di queste apparivano alla vista dei cittadini… naturalmente non saranno state mai al pari di quelle nordiche. Senza togliere meriti a nessuno, per coloro che le videro e scritti tramandati, anche le nostre furono affascinanti ugualmente, come… quella visibile per sessanta minuti apparsa nel 1730 durante il giorno dei morti.
L’essere umano, ha sempre rivolto lo sguardo al cielo, sin dagli albori della civiltà è stato attratto da quell’immenso manto stellato, scrutandolo forse alla ricerca di segni che potessero dare novelle lieti o tristi, cosa che non solo i Sàmit (un popolo autoctono nordico di circa settantamila persone) raccontano di queste manifestazioni anche gli indiani d’America, paragonandole alle anime dei defunti durante il loro trapasso o mentre danzano. Questi indigeni, ubicati nella parte settentrionale con le loro credenze popolari pensano che i bambini nati in una di queste notti, avrebbero un destino glorioso… e sempre dai Sàpmelas, consigliano che se mai vi accadesse di assistere a queste luci artiche di ammirarle nel più rispettoso silenzio, per non infastidire gli spiriti che compongono le “Luci del Nord”, poiché chi non l’avesse rispettato… potrebbe essere rapito facendolo cadere in disgrazia o persino condurlo alla morte. Credenze popolari dovute al folclore locale e amplificato come sempre da racconti di fiabe, leggende e superstizioni, legate ad un fascinoso fenomeno alquanto misterioso del nostro sistema solare.

Daniele Giordano

Foto di Marco Carulli

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