Roberta Dapunt, “Nauz” e la poesia in ladino della Val Badia

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Ci sono dei testi che rappresentano un piccolo, prezioso compendio dell’opera del mondo nella fatica ora sacrale ora laica della sua condizione, un prezioso sunto di ciò che anime e spazi raggiunge, coglie e interrogando trasforma nell’intreccio sovente doloroso ma aperto di cura, lavoro e insieme preghiera nell’azione del quotidiano. Ci arriva, e forse non a caso, da una lingua ad uso di pochi nel cuore dell’Europa e del nostro stesso paese, quel ladino da noi presente nelle sue minoranze del Veneto e del Trentino Alto- Adige. E dall’Alto- Adige viene Roberta Dapunt, più precisamente da Badia nella Valle omonima, autrice anche in lingua, le cui raccolte poetiche hanno catturato l’interesse anche fuori dai confini nazionali lo stesso Nauz (Il ponte del sale edizioni, Rovigo, 2017) che andiamo a presentare raccogliendo nel 2013 (nella prima versione in tedesco) il prestigioso riconoscimento tra gli undici libri più importanti in ambito germanofono dall’ Accademia tedesca per la lingua e la letteratura e dal Lyric Kabinett. Opera dicevamo non disgiunta ma strettamente legata all’attività rurale del suo maso insieme al marito, lo scultore Loris Anvidalfarei. Il maso, come lei stessa ha tenuto a ricordare in quel “Discorso alla lingua. Discorso semplice” posto  a postfazione (e tenuto in occasione dell’apertura del Literatur- und Musikfest <Wege durch das Land 2014>, Nordrehin- Westafalen) nella sua qualità di proprietà contadina richiamante “le sue radici nell’ambiente culturale germanico europeo, da sempre perno e cardine di una evoluzione agricola in cui la famiglia rurale era nucleo fondamentale dell’organizzazione sociale”. Come “dinamica dunque, sviluppo e corso di una economia familiare che ha fatto del contadino un uomo legato alla propria terra, promuovendolo alla nobile qualità di conservatore e naturale tutore dell’ambiente”. Nauz di tutto questo ne è testimonianza a partire dalla scansione dei riti che vanno a caratterizzarne nel silenzio la sussistenza del giorno, tra gli altri su tutti (fin nel crudo corredo fotografico) quello dell’ammazzatura del maiale (la stessa parola, Nauz, in ladino andando a indicare la mangiatoia, il trogolo in pietra o legno da cui l’animale si nutre).

E c’è un qualcosa di intensamente struggente, perché di medesimo sacrificio, amore e offerta necessariamente, dolorosamente rimessa alla terra, di quella terra di cui ospiti andiamo a prendere e siamo presi, nel racconto, o per meglio dire con le stesse parole della Dapunt, nel canto del cedere, dell’abbattersi al suolo dell’animale che “non sa di morire” (“ne sa nia c’hal mör”) che tra sbalzi e arresti va a cedersi nello svanire della pietra nella risolutezza della morte (“Di questa il buio è un feroce argine”- “Dla morté la scurité na strada crüdia”). L’uomo nella giusta distanza a convenire nell’ospitalità di un’agonia “che per pochi minuti all’anno lascia l’odore di un cuore levato” (“che por püc menüć al ann, lascia indô tl nês l’odur de n cör trat demoz”), poi mensa a pascersi ruminando un animale fino a poco prima ancora felice impolpandosi “cotenna in fiore”  (“cioce florësc”), lei nel richiamo del bastone dei pastori, alla ricerca ogni volta delle più giuste ragioni, sereno lui a guardarsi ad esser petalo (“föies da flu”) nella neve che a Natale accoglie il suo sangue. Lirica, grido di una medesima appartenenza di un condizione che i suoi elementi sono chiamati a darsi, e a dirsi dunque, nella circolarità di un divorante, e al tempo stesso accogliente, meccanismo di nutrimento e cancellazione nella trasfigurata mortalità d’anime e forme. “Consento il tuo entrare in quest’alba, nel sole che sorge a morire” (“Ite te lasci, te chësta domani, tl orì de sorëdl a morì”), nel sussurro di un’evocata e riconosciuta passione, nel motivo di parole ben conosciute perché ad ogni levata dall’alto forse anche a lei pronunciate, identità raccolta al suo limite. Solitudine allora che proprio a sera può farsi monologante insonnia verso un Dio di cui non comprende il perché delle insistenze, certo non quieta, non statica come le bestie nella stalla, nella tentazione di ben altro abbandono (“Scelgono le mie mani le dita disgiunte,/non sono forse libera da ogni trama?” -“Tëgn mies mans plö gian i dëić indalater,/lëdia sunsi pö da vigni grop”). Giacché tutto è in questo intreccio di fatica, di obbedienza e di attesa, di terre ed animali ed uomini nel compimento, finanche nella sparizione in un partecipato cammino di dubbi e raccolti, ma anche di ghiacciate, misteriose indifferenze nella creaturale finalità divina.

Così è un operare nel senso di una privazione di cui si chiede l’intenzione al Signore, di un onore del giorno apparecchiato poi davanti alla porta in attesa tra mansioni e garofani in fiore ma di un’invocazione ancora avvertita carente in una quiete e profumo d’intimità delle cose che non possono provenire da un sogno altrimenti scarso sarebbe il valore dell’alzarsi il domani. È dunque una poesia di luoghi ed anime nella fatica e nella costruzione di un senso la cui sacralità, accolta, rimessa, comunque evocata e operata appare smarrita a un senso di abbandono e di lontananza cui il verso tenta di legare ai motivi delle proprie incisioni, di scuotere dal basso delle terre a un discendente e rivelatorio approdo di contro a un frasario senza preghiera, ad un coro ai suoi occhi di uomini e donne nell’eredità di uno smarrimento nel dovere e negli abiti di una fatica che solo lascia spazio alla domenica a quello della festa (“vigili loro di un paradiso straniero”- “verda por ëi n paraîsc forest”). Poesia che allora nel sommovimento, nella fatica dell’attesa e dell’entrata nel mondo ha lo stesso incedere e cercarsi del lavoro e della preghiera, ad esse muovendo e smuovendo pur nella rivelata consapevolezza che “nessun verso è giusta e debita misura” (“degun vers despaia jö l’debit”), il ladino nello sradicare parole come terra verso “pasture più feconde” (“pastöra plö grassina”), sempre però al passato rivolto lo sguardo “da una stretta apertura” (“da n cucher ite”). Così l’invito finale alla gente ladina dal “piccolo nome” (“pice inom”),  a volgere lo sguardo lontano, ha il segno di una espansa attenzione a ciò che del mondo delle sue rovine nulla nella diversità è d’estraneo per frequentazione e conoscenza della terra: “Per quanto erba ladina maturi qui in ogni dove, che sia stalla e concimaia,/l’erba fine rimane il trifoglio amaro che sempre, ogni anno vi cresce attorno” (“Por tan che erba ladina crësc dlunch incëria, dan stala y pro zopa,/l’erba plö fina é impo l’trafëi ante che vëgn sö vigni ann dlungia ia”). D’ognuno come per loro potendosi dire “gregge minore anche noi in affittanza sul mondo” (“mënder tlap incé nos adinfit söl monn”. Nel senso di questo faticoso operare ed esserci nell’azione e nel richiamo ad un sacro nel cui limite è l’accordo col luogo che ci ospita è tutta l’incisione di una parola ben attenta all’ordine in cui va a inserirsi. A fronte di “un presente a scopo di consumo senza confronto o riferimento con la storia” (ancora dalla postfazione) c’è di che imparare.

Gian Piero Stefanoni

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