Al Teatro alla Scala di Milano, recita del 10 marzo
Ironia della sorte; entrambe le opere in cartellone in questo momento al Teatro alla Scala (Dama di Picche e Adriana Lecouvreur) che hanno subito “defezioni” di artisti russi per l’imperante conflitto, hanno nei rispettivi libretti diretti riferimenti alla guerra nonché alla Russia. Alla fine the show must go on e Adriana Lecouvreur (orbata della Netrebko e, causa Covid, delle prime due recite del tenore Di Tommaso) è andata comunque in scena. La figura della protagonista dell’opera, realmente esistita, è un’attrice che morì a trentotto anni, nel 1730, nel massimo fulgore di una carriera che si era rivelata straordinaria, interpretando sul prestigioso palcoscenico della Comédie Française più di cento personaggi, molti in prima assoluta, per oltre milleottocento recite. La Duclos, altra attrice citata nell’opera, rappresentava invece lo stile un po’ compassato della tradizione, mentre la Lecouvreur fu fin da subito più naturale e moderna, meno enfatica. Adriana morì improvvisamente per un’emorragia interna e questa morte improvvisa suscitò molti sospetti. La relazione amorosa che aveva avuto con il Maresciallo di Francia Maurice de Saxe, era appena terminata e qualcuno volle vederci delle implicazioni. Così il drammaturgo Eugène Scribe la farà morire avvelenata per un mazzolino di violette donatole dalla rivale in amore: sicuramente una fine più romantica. Adriana Lecouvreur, come lo stesso compositore Cilea racconta, prese forma dopo ben due anni di gestazione, causa malattia che lo aveva travagliato per parecchi mesi. L’ultimo atto lo strumentò in gran fretta, dopo l’estate del 1902, perché l’editore musicale Edoardo Sonzogno, impresario del Teatro Lirico Internazionale, voleva a tutti i costi inaugurare la stagione d’autunno con una novità. Adriana Lecouvreur andò in scena il 6 novembre di quell’anno, sotto la direzione di Cleofonte Campanini: l’esito fu trionfale e si ripeté per le quattordici repliche. Successo favorito dall’ottima compagnia di canto: Angelica Pandolfini protagonista, Enrico Caruso Maurizio, Giuseppe De Luca, Michonnet, la Ghibaudo Principessa di Bouillon. Da allora le più grandi cantanti-attrici si sono cimentate con questo personaggio; per citare solo le più vicine a noi, ricordiamo la mitica Magda Olivero, che ha fatto di quest’opera un vero e proprio cavallo di battaglia, Raina Kabaivanska (di cui l’Agresta è stata allieva e ha perfezionato la parte), ma anche di altre grandi cantanti come Renata Tebaldi e Renata Scotto. Dopo una partenza fulminante, la fortuna d’Adriana poco a poco si affievolisce, riapparendo solo in sporadiche occasioni. La lungimiranza di Piero Ostali, che aveva rilevato dai Sonzogno la prestigiosa casa musicale, convinse Cilea a rivedere la partitura, sveltendo l’opera e dandole una più congrua logica drammaturgica. Sotto questa nuova veste, Adriana ricompare nel 1930 al San Carlo di Napoli, l’anno successivo all’Opera di Roma, dove coglie un entusiastico trionfo; interpreti Giuseppina Cobelli, Aureliano Pertile e Gianna Pederzini. E’ lo stesso cast che nel 1932 porta l’opera per la prima volta al Teatro alla Scala: il cui pubblico, con un fragoroso successo, rinnoverà alla nuova versione della partitura i favori già tributati al suo apparire. Doppia vittoria per Cilea: ripagato della delusione del debutto scaligero di Gloria e il veder entrare Adriana in uno dei massimi templi della lirica. A Milano era stata ripresa al Teatro Lirico, al Carcano e al Dal Verme, ma senza mai varcare le soglie della Scala. Il Direttore Gianpaolo Bisanti, al suo debutto scaligero, mostra sicuro piglio di concertazione e senso del palcoscenico, cavando colori orchestrali e tempi sempre molto netti, suoni ridondanti e spiccati colori teatrali; scarsa però la vera tensione, sia di tempi sia di espressione. Ne scapita la narrazione, che procede spigliata ma senza grandi approfondimenti o chiaroscuri, soprattutto nell’accompagnamento di maniera dell’ultimo atto. Senza particolari finezze l’intermezzo sinfonico del secondo atto. Alessandro Corbelli, dall’alto dei suoi settant’anni sa essere ancora un Michonnet, personaggio di stile parlante, vocalmente accettabile nei centri, mentre quando deve salire la voce non è più ferma. Fa valere la sua consumata esperienza di palcoscenico, trovando accenti sinceri per il vecchio, ligio e generoso direttore della Comédie-Francaise quanto improbabilmente innamorato della primadonna. Toccante il suo Non glielo dico più… Il Principe di Bouillon di Alessandro Spina, senza farsi notare per un timbro particolarmente penetrante, risulta pur di efficace pregnanza e buon attore. Abate di Chazeuil nel più scontato cliché di leziosaggine, non ironia o credibili insinuazioni nella voce sempre uguale di Carlo Bosi. Maria Agresta, Adriana, convince nell’ingresso in scena con Io son l’umile ancella puro lirismo staccato in tempi larghissimi, smorzature, qualche indugio lezioso nella voce che negli anni è andata irrobustendosi. Spiritosa nel duetto con Michonnet del I atto, serve bene il personaggio giocando a far la semplice in scena. Nel primo duetto con Maurizio sa essere procace, avvolgendo l’amante con la sua sensualità. Nel monologo di Fedra non riesce a scolpire credibilmente il fatidico declamato e l’interpretazione ne scapita, restando in superficie: attrice di buon gusto, senza essere Diva. Risolve il personaggio prevalentemente nel canto, cedendo nei passi più drammatici dove più spiccatamente gonfia il suono anziché imprimere passionali accenti al fraseggio. In Poveri fiori mostra lunghi fiati smorzati, accento compassionevole: con arte conquista il pubblico. La Principessa di Bouillon era la rumena Judith Kutasi, subentrata alle due titolari. In Acerba voluttà, mostra brunita voce di mezzosoprano che ben si sposa nei duetti a quella della protagonista. Da subito mette in mostra una generosa interpretazione senza abusare di suoni poitrinè: insinuante nel fraseggio e a suo agio in scena con un bel personale. Nell’incalzante duetto del II atto trascina l’Agresta in uno dei momenti più incandescenti della serata, con mordente e aggressività. Sempre efficace in Ah quella donna, dove palese al tempo stesso il lignaggio e donna innamorata, mescolando altezzosità e dubbi e incertezze e gelosie. Il giudizio su Maurizio di Freddie De Tommaso andrebbe sospeso, per le vicissitudini che il tenore anglo-italiano ha subito prima e durante l’unica rappresentazione (delle tre previste) che dovevano suggellare il debutto scaligero. Pur con le esitazioni e incertezze percepite nel primo tempo, si è potuto ascoltare una voce di tenore dalle calde screziature, a tratti un po’ ruvida ma capace di smorzature e di un discreto legato. Sfuma elegantemente La bellissima effige, smorza i fiati e trova accenti appassionati, anche se la voce, un po’ indietro, non è perfettamente proiettata. L’anima ho stanca è ricca di vibrazioni di sofferenza, partecipe del sentimento cantato. Il Russo Mencikoff sa essere incalzante nel fraseggio, pur glissando sull’articolazione della parola, e non forza per prudenza al fine di conchiudere la recita. Il duetto II con Adriana Tu sei la mia vittoria, lo supera senza far sfoggio di squillo riservando le energie per il commovente finale, dove mette in mostra la corda patetica della sua voce, capace di commuovere. Corretti gli altri. L’Allestimento visto è una coproduzione che ha coinvolto i teatri di Londra, Barcellona, Vienna, Parigi e San Francisco; regia di David McVicar, scene di Charles Edwards, costumi sfarzosi di Brigitte Reiffenstuel. Spettacolo che si situa nel solco della più scontata tradizione, montando un teatrino di legno da cui si sbircia la storia in coulisse, riservando lo spazio del proscenio per l’azione dei principali, mossi nella più classica delle maniere. Teatro nel teatro, che trova l’apoteosi nella festa nel teatrino di palazzo Bouillon, con ballerini che facevano parodia della danza. Bravo Mercurio, modesto Paride. Troppo lunghi intervalli, a spezzare l’azione. Successo molto caloroso per tutti, riservando toni trionfali alla protagonista Maria Agresta.
gF. Previtali Rosti