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Norma, sublime eroina romantica

Data:

Teatro Regio di Torino, recita del 20 marzo 2022

Wagner stesso ebbe a definire Norma di Vincenzo Bellini come un’opera “Nobile e grande, pura come la natura stessa”: uno dei capolavori maggiori che la felice stagione del melodramma del primo ottocento ha saputo creare. La partitura esce dalle mani del compositore catanese come un lavoro d’apparente semplicità armonica, mentre è il frutto meditato e perseguito con infinite correzioni, tagli e rimaneggiamenti operati dal musicista con impegno maniacale. Norma sfolgora (è il caso di dirlo) nel firmamento dei titoli operistici di tutti i tempi per le sue pagine vocali, soprattutto femminili, ma anche per i possenti cori che sanno farsi interprete di una passione collettiva. I duetti, specialmente quelli del secondo atto, attingono vertici sublimi, carichi di una forza drammatica che raramente è stata raggiunta in seguito. Il soggetto dell’opera è tratto da Norma ossia l’Infanticidio, un testo del francese Aléxandre Soumet, salito alla ribalta della notorietà per lo scalpore suscitato scandalizzando il pubblico mettendo in scena una madre, rediviva Medea, che uccide i propri figli. Il Teatro alla Scala, sfruttando l’occasione, commissionò a Bellini un’opera nuova su un tal soggetto, affiancandogli Felice Romani, il librettista più dotato e famoso del momento. Il debutto, fissato per il 26 dicembre 1831, è tiepido, e non necessariamente disastroso come da decenni ci vuol far credere l’amico e biografo del musicista, Francesco Florimo. Rimane sempre uno smacco, per il sensibile compositore, che aveva investito molte energie in questo nuovo lavoro: le cause del mancato successo si possono addebitare alla coppia di protagonisti, Giuditta Pasta e Domenico Donzelli, arrivati esausti alla prima, provati dalla fatica d’estenuanti prove. Forse anche per la cabala ordita dagli amici e sostenitori di un compositore rivale, Giovanni Pacini. Chissà. Già la seconda rappresentazione mostra un clima diverso, molto più caloroso, portando a trentaquattro il considerevole numero delle repliche. L’opera fu data a Torino, nel Teatro Regio, esattamente due anni dopo la prima milanese, 26 dicembre 1833 (a quei tempi s’inauguravano le stagioni di Quaresima e Carnevale la sera di S. Stefano), con un cast di stelle. Nomi che a noi oggi dicono poco, ma Amalia Schütz-Oldosi fu uno dei più grandi soprani della sua epoca. Norma torna a Torino in un allestimento ideato dal grande Ezio Frigerio, che vuole essere così un estremo omaggio allo scenografo recentemente scomparso. Protagonista di questa edizione è stata Gilda Fiume, che del personaggio di Norma fa prevalere il cotè lirico su quello tragico: il suo canto, caratterizzato da una buona qualità timbrica, è reso espressivo da ottimi legati e sonore mezzevoci.

Filature preziose sempre perfettamente sostenute, buon legato e padronanza dei fiati, il soprano salernitano trova i momenti migliori quando può dispiegare tinte lunari rendendo il pathos dell’azione con il suono, più che con l’accento superficialmente scolpito. Più matronale, che ieratica presenza sacerdotale. Le dinamiche e le intenzioni espressive, ricercate dalla Fiume, trovano piena realizzazione in eleganti pianissimi, mentre difettano negli accenti più espressivi, non scolpiti, dando fondamentalmente un’interpretazione lirica, non sempre incisiva e consona, nei passaggi più drammatici. Fascinosa nel Casta diva, quando può filare la voce e il direttore indugia in tempi lenti, ma non attacca mai in velocità i passi acrobatici, sottraendo così mordente alla coloratura. Trova giusti accenti, patetici, nel convincente “Non vedran la mano“, gareggia nei duetti belcantistici con Adalgisa, pur si disimpegna nel “Guerra, strage sterminio“, per giungere al toccante finale in cui sa essere tragica e patetica, in gara con Pollione, portando il teatro alla commozione generale. Non domina, tuttavia, la parte di agilità, tipicamente belcantistica, e tende a spianare le preziosità ricamate da Bellini che la trovano in difficoltà nella coloratura di forza e nei passi di agilità veloce. Introduce nella cabaletta Bello a me ritorna parche variazioni, ma non di gran gusto. Non godendo di generosa estensione vocale, tende ad avere scoperti gli acuti più impervi. Annalisa Stroppa offre ad Adalgisa un buon timbro mezzosopranile, omogeneo nei registi e voce proiettata, anche se gli acuti non sono sempre ben a fuoco. La caratterizzazione della giovane sacerdotessa risulta alquanto enfatizzata, e nella voce e nella recitazione, così da essere vagamente manierata, più che innamorata verginale appassionatamente tormentata e amica leale e generosa. Dimitry Korchak, per personalissima caratterizzazione vocale, è un Pollione lirico, credibile nei tratti amorosi. L’accento eroico ne esce, però, fortemente ridimensionato: s’infiamma sì, al primo atto, ma mai in maniera travolgente e la caratterizzazione del proconsole romano prosegue su questa linea per il resto dell’opera. La qualità espressiva esce nell’ultima scena del II atto quando fa valere legati e mezzevoci. Tenta finezze vocali nel duetto con Adalgisa, ma la voce tende a sbiancarsi. Il mezzo vocale non appare sempre omogeneo nei registri, e gli acuti risultano spesso spinti, per ottenere il fascino dello squillo. Fabrizio Baggi è un Oroveso abbastanza solido, anche se il timbro sembra gonfiato e mai completamente naturale. Nei gesti, eccessivamente enfatizzati, tende a essere caricato anziché teatralmente espressivo. Si disimpegna nella sua aria. Joan Folqué è un Flavio digiuno di arte vocale, parendo il suo canto più vicino al parlato. Minji Kim è Clotilde, con un’interpretazione al servizio della parte, senza essere particolarmente espressiva. Francesco Lanzillotta, giovane direttore chiamato sul podio torinese, mostra subito il carisma di cui è dotato: il suo gesto è variegato quanto pregnante e si traduce in felici momenti espressivi. Le sue mani sembrano raccogliere il suono, quasi manipolarlo in efficaci dinamiche sonore, per essere slanciato in sala. Dalle tinte solenni e misteriose dell’ouverture passa a scandire accompagnamenti ora profondamente lirici e idilliaci, ora toni cupi e spinti a imperativi eccessi drammatici.  Sa sempre rendere il giusto colore che s’imprime teatralmente sull’azione scenica. Passa dalla siderea tinta orchestrale del Casta diva al terzetto “No non volerli vittime“, di toccante visione lirica, alle fascinose atmosfere, per tempi e ritmo, dei preludi. La sua direzione, espressiva e variata si sposa con il canto senza perdere in tensione narrativa. Ottimo concertatore, tesse bene il legame fra massa orchestrale e palcoscenico, comprendendo le esigenze dei cantanti di cui segue il respiro. L’orchestra, al netto di alcune carenze espressive e tecniche – penso agli ottoni, in particolare, e sezioni degli archi – suona con diligenza. Buona la prova del Coro del Teatro Regio. Deludente lo spettacolo della mitica coppia Frigerio-Squarciapino, un allestimento realizzato nel 2016 per il Teatro di San Carlo di Napoli, che ambienta la vicenda in uno spazio senza tempo, scene di Ezio Frigerio e costumi astorici con rimandi a popolazioni dei primordi di Franca Squarciapino. Arido e freddo l’impatto, con buffe incongruenze, (ara del rito e abitazione di Norma) e una percezione del misticismo druidico e del culto magico che sembra riandare più al clima di pura fantasia stile Harry Potter… Eccessivamente descrittive, a sfiorare il ridicolo, le proiezioni sullo sfondo a evocare il clima da leggenda, paure e superstizioni. La regia, alquanto statica, era affidata a Lorenzo Amato che non ha saputo andare oltre la funzionalità dello spettacolo. Pubblico intemperante, costellando la recita di applausi fuori tempo e fastidioso andirivieni. Successo calorosissimo per tutti, con punte di delirio per i tre protagonisti e per il direttore d’orchestra. Teatro Regio di Torino, recita del 20 marzo.

gF. Previtali Rosti

credits: per il manifesto rosso immagine di Marzia Caruso | Accademia Albertina di Belle Arti di Torino
per le foto: Teatro di San Carlo di Napoli (2016) – Foto Luciano Romano

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