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LA BEATRICE DI ENRICO BERNARD

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Il poemetto drammatico di Enrico Bernard  Beatrice risponde a Dante, per le rime, pubblicato anche nel sito del Corriere dello spettacolo,  è stato rappresentato nell’ambito del Premio della Legalità curato da Carmen Lucia a Vallo della Lucania. Interprete del testo Miriam Ferolla anche madrina e presentatrice della serata. La manifestazione dedicata al tema della difesa dell’ambiente e alle donne vittime di violenza ha trovato nell’opera di Bernard, scritta per il 700esimo della morte di Dante, un riscontro importante sul piano della risposta femminile alla supremazia maschile. Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore BeaT la prefazione di Carmen Lucia al volume dedicato all’opera di Bernard.

 

Premessa

Quale seduzione più forte si può immaginare per un autore contemporaneo se non un dialogo con Dante, un dialogo inteso come “dià-leghein”, attraversamento, interferenza, incontro e scambio fecondo di sensi.

Vorace e autentica voglia di sperimentare, provare registri, ritmi e repertori nuovi, contaminare e riscrivere: così appare la scrittura di questo remake di Enrico Bernard, che dà voce e corpo a Beatrice.

I versi di Dante diventano un archetipo, una radice della memoria, una fonte, in cui si contamina un richiamo al presente, un presente dissacrante, che dà vita a una Beatrice che è figura piena, intensa, audace.

    In questa pièce teatrale l’autore, Enrico Bernard, intreccia un poetico dialogo con l’opera di Dante e la fa rivivere sulla scena, ricomponendone le parole in echi scomposti, ibridi, frammentari e ironici. I versi della Vita Nova e della Commedia diventano un “pre-testo”, o un “avantesto”, [1] che Bernard ritaglia rapsodicamente, con una dissacrante e parodica operazione di selezione, inserendo le tessere originali dei versi nel mosaico della sua riscrittura, con nuances allusive, inedite e dissacranti, dove domina la tecnica della citazione  e dell’intertestualità.

     Nella drammaturgia contemporanea la riscrittura è diventata ormai un genere a sé, un genere ibrido dove la fonte, il classico diventa un avantesto per dare vita a una ricomposizione lirica dei testi della tradizione: dalla proliferazione di questo specifico genere testuale della riscrittura si è sviluppata quella che è definita una “drammaturgia di secondo grado”,  che guarda ai classici come a un patrimonio creativo di inesauribile valore, una fonte da cui attingere modelli, richiami, suggestioni e memorie.  I miti e gli archetipi della tradizione classica, dalla letteratura greca all’Ottocento, appaiono così trasfigurati, depotenziati da paradigmi “borghesi”, rivissuti in un’aura nostalgica e cristallizzata; ricondotti a una moderna concezione psicocritica (psicoanalitica).[2]

 In questo processo poetico di riformulazione e traduzione, le fonti del passato diventano come “palinsesti” (Genette), da cui il drammaturgo attinge per riscrivere e riformulare nuovi sensi e nuovi significati.[3] Riscrivere un classico significa dare spazio al non detto, disambiguare ciò che resta implicito, parafrasare, sciogliere nodi testuali ed esprimere nuovi sensi, anche traducendo la fonte classica e parafrasandola, con nuovi linguaggi e nuove traduzioni  intersemiotiche.[4]                Riscoprire e disgregare le forme di una fonte, in funzione del riuso, può significare ritrovare e rifondare un mito, rinnovare un archetipo e soprattutto attraversare una tradizione, attraverso nuovi approcci e nuove visioni.  Ogni traduzione diventa poi una riattualizzazione, ogni citazione un tradimento, o un travestimento, nei contenuti, come nei livelli formali, spesso connotati da un’originale lingua di scena e da una ricerca espressiva, in cui si contaminano più idiomi, per la spiccata vocazione pluristilistica che caratterizza tanti remake.

 Quest’opera è una riscrittura, un genere abbastanza diffuso oggi, perché nel teatro contemporaneo, come del resto nel Novecento, la classicità diventa spesso fonte e avantesto di riferimento per numerose riscritture. Eroi diasporici, simbolo del reducismo e dell’eterno tema del “nostos” come Ulisse, diventano allegorie parlanti di riscritture a partire da ’U Ciclopu di Pirandello, tradotta dall’opera di Euripide; figure storiche ed emblematiche, come Medea o la Monaca di Monza, Cleopatra, Erodiade, rivivono nei testi teatrali di Pasolini, Corrado Alvaro, Testori; così come l’allegoria di Pinocchio ritorna negli echi scomposti e demistificanti di Carmelo Bene, insieme alla totale immanenza dell’opera di Dante e Shakespeare, che si ricompone nella sua drammaturgia, come nelle ardite sperimentazioni teatrali di Leo De Berardinis.

Il non detto e l’implicito, quel che resta dei “capitoli fantasma” dei testi letterari, come li ha definiti Umberto Eco,[5] viene svelato con questa riscrittura di Enrico Bernard, con la stessa vena dissacrante di Giovanni Testori. La “nuova” Beatrice a cui dà vita Bernard ricorda, per la sua umanità e per le intime lacerazioni, la Monaca di Monza dell’opera “I Promessi Sposi alla prova”[6]  Testori, uno degli  scrittori più fecondi del teatro del Novecento.

Testori afferma che nel suo teatro riscrive miti e figure ancestrali di grandi classici (Medea, Amleto, Edipo), per strapparli alla sacralità della tradizione, quasi per denudarli, gettandoli nel ventre del “golgota quotidiano,”[7] per restituire loro di nuovo “la carne, il sangue” e la parola. Come la Monaca di Monza, così anche questa Beatrice di Bernard diventa nella riscrittura un personaggio nuovo e assume un ruolo diverso, unico: la scena è per entrambe funzionale a un risarcimento, chiedono parola e come altri miti incarnano anche il ritorno del defunto dalla terra dei morti, secondo un topos di grande forza generativa nell’immaginario diacronico del teatro europeo. In questa nuova dimensione, come Gertrude, Beatrice appare moderna, irriverente e dissacrante, risucchiando lo spettatore nel teatro di un’affabulazione dal basso.

Nella forma mediata della “traduzione – tradizione – tradimento” (Benjamin),[8] l’intento di Bernard è di far precipitare il livello espressivo della Commedia per trasfigurarlo in divertisment, proprio spingendo ad libitum quella vocazione di Dante al pluristilismo che Pasolini, allievo di Contini, traduceva con un’icastica immagine di una linea a serpentina (l’immagine iconica e sperimentale che indicava – nel movimento tra registri aulici e formali e abbassamenti verso i gerghi e il parlato – la polifonia dei dialoghi delle tre Cantiche).[9]

E dalla Commedia dantesca, proprio il dialogo è il meccanismo semiotico dominante che dalla fonte-ipotesto trasmigra nel remake di Bernard, che convoca sulla scena Beatrice e Dante, ponendoli uno di fronte all’altro, in una scena che evoca una sfida, un agone tragicomico. L’opera adotta la forma del debàt, dell’alterco tra l’autore e la sua creatura, tra lo scrittore e il suo fantasma, Beatrice, proiezione onirica e immaginifica di tutto il rimosso e non detto, che sulla scena prende vita fino ad esplodere. Sin dall’incipit, Beatrice  appare come una donna  offesa nell’ onore e nella dignità, ma soprattutto una donna consapevole e capace di analizzare criticamente i versi del suo autore, tant’è che tutto inizia proprio dalla volontà sua di sciogliere i nodi testuali e fare chiarezza finalmente sull’ambiguità semantica sottesa ai versi iniziali del celebre sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare”:

 «Ci siamo, prima m’elevi al rango di colei che ispira e poi mi sento dire che son peggio d’una vampira la qual le labbra muove tremolanti e “pien d’amore” come s’atteggiano le femmine di strada senz’onore»

 Inoltre, nella performance teatrale, il rapporto simbolico alto-basso che s’instaura tra Beatrice che “risponde per le rime” al suo autore viene rimarcato poi dalla portata metaforica del leggio, che solleva simbolicamente Beatrice, mentre reinterpreta e stravolge i versi di Dante attraverso la parola, che ammette solo il divertissement e la dissacrazione.

Mediante la tecnica dello straniamento, dell’abbassamento retorico, Beatrice,  assunta come  un senhal, un simbolo allegorico che conduce alla salvezza attraverso la luce, diventa qui corporeità, voce, sfida, irriverenza, riscattando  l’elemento femmineo  in una dissacrante femminilità,  che resta in bilico tra sdegno, sfida e ironia.

 Sul piano del genere testuale e del contenuto, possiamo definire questo dialogo tra Dante e Beatrice come una scrittura in maschera: nei registri tonali dissonanti, avviene la teatralizzazione dei versi di della Commedia e dei sonetti. Come nella prosa umoristica di Laurence Sterne, anche in quest’opera sospesa tra pàthos e ironia, la traduzione diventa un travestimento nel senso antinaturalistico  di un “teatro straniato”, in cui corpo, voce e gesto siano segni della falsificazione o maschera di un soggetto di un luogo di un tempo altro.

La ripetizione del sonetto “Tanto gentile” della Vita Nova e dei passi della Commedia avviene dunque attraverso la tecnica dello straniamento e del trattamento sterniano della fonte. Questa tecnica  compositiva appare come l’aspetto più sperimentale della riscrittura, dove le parole di Beatrice sono poeticamente riformulate con il procedimento poetico dell’abbassamento retorico. E Bernard, che è anche scrittore sterniano e umoristico, con straordinario spirito parodico e gusto del fool scespiriano, proprio attraverso lo straniamento del punto di vista di Beatrice, fa rivivere Dante in scena tra ironia, gioco, funambolismo e irriverenza:

DANTE: Mostrasi sì piacente a chi la mira

che dà per li occhi una dolcezza al core,

che ‘ntender no la può chi no la prova;

BEATRICE: (Fermandosi adirata e puntadogli addosso la scopa)

E qui casca l’asino che sei! Non ti credere che sia

così sciocca da non capir che con “chi no la prova”

non ti riferisci alla sottoscritta, leggo bene la poesia,

bensì alla dolcezza che a guardarmi il cuore trova.

Dominante appare il registro comico-grottesco, che ricorda anche  le rime di Umberto Eco (Kant, /filosofetto che mi piace tant / perché non fa du-du-du / dubito ergo sum), raccolte in un libro giovanile “Filosofia in libertà” (pubblicato nel 1958 e ora rieditato per  La nave di Teseo, 2021). Sul piano formale, l’opera presenta una lingua di scena, dove l’italiano standard si contamina con la lirica del Trecento e la lingua di Dante: nell’intonazione sintattico-discorsiva, nel livello  retorico. A livello stilistico, è noto che la ripetizione rappresenta uno stratagemma classico del comico, e Beatrice ripete le parole di Dante però abbassandole e degradandole. Dal comico di ripetizione si passa poi al gioco di parole, basato sulla polisemia. E così gli effetti comici e di non-sense funzionano da disinnesco, creano un particolare timbro chiaroscurale, che oscilla tra incanto e disamore.[10]

CONCLUSIONI

Da Pirandello a Pasolini, fino ai contemporanei Ugo Chiti, Vincenzo Pirrotta, Ruggero Cappuccio, Enzo Moscato, Manlio Santanelli, Emma Dante, i classici continuano a offrire visioni, immagini, temi, registri espressivi e stili che ritornano sulla scena come in un “remake” continuo. La tradizione con le sue fonti letterarie, sia nella forma della riscrittura, sia nella forma mediata di traduzione, sembra sottoposta così quasi a un procedimento rapsodico, da cui si originano poetiche partiture, dove l’ispirazione, l’intimità della lirica e la potenza dell’epica classica, problematica e interrogativa, tragica e rituale, ritornano con tutte le loro suggestioni ed evocazioni simboliche, sotto forma di citazioni, frammenti, allusioni, traduzioni, spingendosi fino alla dissacrazione e alla deformazione parodica.

Ponendosi in questo solco, l’opera di Enrico Bernard rappresenta una sfida, una tensione, uno spazio anarchico di libertà, dove la forza creativa della scrittura si apre a un confronto dialettico con l’opera di Dante. Dante è il classico che si riscopre in una poetica riscrittura a palinsesto: un sonetto o un verso della Commedia diventano come un avantesto mitico, primigenio, che rivivono sulla scena grazie a una strategia straniante, un atto illocutorio finalizzato alla demistificazione.

 L’opera ricorda l’humor libero e divagante di Alberto Savinio, che si serve del “guardaroba della storia”, riscrive Nietsche, uno dei suoi autori, per creare un’opera di travestimento.  Così Manganelli, che con  quel tono sempre lietamente canzonatorio  (sentito come il modo migliore per analizzare la realtà  bruta) considera che l’unico modo per capire la realtà resta unicamente quello di trascenderla nel modo più  surreale  (racconta di un incontro in via del Tritone con l’imperatore Marco Aurelio).

Come in Savinio, Manganelli e Testori,  anche in questa riscrittura la tradizione viene rovesciata e decomposta con scelte formali ardite, sperimentali e irriverenti, che assicurino ancora nuove e inedite ancora aperture di senso.

Carmen Lucia

[1] Per la dizione specifica del lemma “avantesto”, inteso come fonte di una riscrittura o adattamento, cfr. C. Segre,  Avviamento all’analisi del testo letterario,Torino, Einaudi, 1985, 381, nota 105.

[2] Per un approfondimento sulla rilevanza delle riscritture si vedano i fondamentali saggi di Giorgio Taffon,  Maestri drammaturghi nel teatro italiano del ‘900, Roma-Bari, Laterza, 2012,³ p. 123 e cfr. A. Lezza, “La letteratura teatrale italiana. Storia e ipotesi di lavoro” in A. Lezza, A. Acanfora, C. Lucia (a cura di), Antologia teatrale, Napoli, Liguori, 2015, p. 26 e nota n. 76.

[3] Il lemma “palinsesto” risale all’opera di G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris Seuil, 1982 (trad.it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997).  Ogni testo si definisce “al secondo grado” se sottoposto a “riuso”, adattamento e ricodifica. La riscrittura o il remake deriva da un modello, un “ipotesto” che può essere citato, riscritto e riformulato anche in chiave parodica.

[4] Jakobson definisce traduzione intersemiotica, la traduzione intesa come passaggio di un messaggio da un canale all’altro, nell’ambito dello stesso sistema linguistico, dalla fonte (testo scritto) alla traduzione scenica , cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966.

[5] U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi,  Bompiani, Milano, 1979, pp. 117-121.

[6] Rimando al mio saggio C. Lucia, “Un classico deformato, tra eresia sociale e contaminazione testuale. La riscrittura del classico manzoniano ne I Promessi Sposi alla prova di Giovanni Testori” in A. Lezza, A. Acanfora, C. Lucia, Antologia Teatrale, Liguori, Napoli, 2015, pp. 107-141.

[7] Cfr. G. Testori, “Il ventre del teatro”, in Giovanni Testori nel ventre del teatro, a cura di G.Santini, Urbino, Edizioni Quattro venti, 1996, pp. 34-35.

[8] Il riferimento al saggio di Walter Benjamin (Die Aufgabe des Übersetzers del 1920) è in U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani, 2003, p. 20.

[9] Per la ricerca critica e la riflessione epilinguistica Pasolini il riferimento principale è Nuove questioni linguistiche, un articolo apparso su “Rinascita”, il 26 dicembre del ’64.

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