CAVALLI E LA SCIENZA DEI SENTIMENTI

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La poesia come scienza dei sentimenti, di una interiorità nella registrazione diaristica e teatrale di sé: è questo, nella volontà mai doma d’afferrare misure e contromisure dell’io, lo spazio nella quale l’interrogazione della Cavalli si muove. Nella grazia di un linguaggio a tratti colloquiale, vicino al parlato ma contenuto nella dimensione della metrica classica, cerca nella riflessione di dare ordine alle instabilità del cuore, ad un mistero restituito nella parola delle sue combattute metamorfosi. Una poesia del sensibile ma non sentimentale dunque, in cui il senso accogliendo la parola ne giudica la verità nelle forme diverse di una inquieta e insieme divertita rappresentazione. Così nel timbro della cronaca e dell’allegoria, dell’apertura al poemetto o alla brevità dell’epigramma, raccogliendo un copione che ha nell’amore la sua ragione l’ordinarietà del privato finisce coll’ imporsi nella sua più schietta attitudine. Come il canzoniere di un tempo che, pur instabile e a volte allarmante, quasi si vorrebbe immortale (“Se ora tu bussassi alla mia porta/e ti togliessi gli occhiali/e io togliessi i miei che sono uguali/e poi tu entrassi dentro la mia bocca/senza temere baci diseguali/e mi dicessi: « Amore mio,/ma che è successo?», sarebbe un pezzo/di teatro di successo”). La seduzione della Cavalli si gioca nell’ abile commistione di un verso nell’effetto della sorpresa, della naturalezza di un ritmo sovente nell’ andamento prosastico e recitativo di un tradizionale e flessibile endecasillabo. L’uso sovente casuale delle rime, un lessico esatto nella linearità della sintassi, tutto concorre nello stile ad una riflessione corposamente attiva. Mai dispersiva, si nutre nel distacco di una  fisiologia ironica e colta, di una quotidiana  e sensuale filosofia. Il sublime nella leggerezza irrisolta della vita. Aprendo un fronte nuovo dalle secche di una poesia civilmente e sperimentalmente impegnata, questa scrittura ha saputo distinguersi legando alla figura dell’amore la condizione di un più generale smarrimento. Così il disincanto dell’anima e del corpo nell’affanno di anni che procedono per confuse negazioni si fa storia, nella cronaca di amare  dissonanze,  di un età irrisolta, e forse irrisolvibile. E ancora, nel dialogo, di una geografia di assenze, di creature e passioni mutili: luogo privilegiato dello sguardo (“Il cuore non è mai al sicuro e dunque,/fosse pure in silenzio, non vantarti/della vittoria o dell’indifferenza./Rendi comunque onore a ciò che hai amato/anche quando ti sembra di non amarlo piú./Te ne stai lí tranquilla? Ti senti soddisfatta?/Potresti finalmente dopo anni/d’ingloriosa incertezza, di smanie e umiliazioni/,rovesciare le parti, essere tu che umili e che comandi? No, non farlo,/fingi piuttosto, fingi l’amore che sentivi/vero, fingi perfettamente e vinci/la natura. L’amore stanco/forse è l’unico perfetto”).

Gian Piero Stefanoni

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