Dall’11 al 15 maggio 2022 al Teatro Filarmonico di Verona
Il Festival Vivaldi, organizzato nel 1978 al Teatro Filarmonico, per le celebrazioni del 300° anniversario della nascita del compositore veneziano, frutto di lunga preparazione e dedizione che il Maestro Scimone dedicò alla prima organica riproposta di un’opera vivaldiana: L’Orlando furioso. Parallelamente si tenne un Convegno su Vivaldi, presentato dal musicologo Peter Ryom, uno dei massimi studiosi vivaldiani. La città di Verona ebbe il grandissimo merito di aprire la strada alla (ri)scoperta della produzione drammatica del teatro d’opera di Vivaldi, completamente ignorata per secoli. Una decisiva testimonianza d’interesse per la bellezza e forza travolgente del celeberrimo “prete rosso” ha così preparato il via alla diffusione di realizzazioni sceniche dei titoli vivaldiani cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Allo sfolgorante genio musicale di Vivaldi, che la fama da tempo accompagna la sua musica strumentale, si può aggiungere il titolo di operista. L’Orlando furioso fu messo in scena in prima mondiale in tempi moderni, dopo li debutto veneziano del 1727 e si poté parlare a buon titolo dell’avvio della Vivaldi renaissance, ché rarissime erano state fin allora le proposte sceniche. Con un cast omogeneo in cui spiccava la travolgente interpretazione di Marilyn Horne, un allestimento memorabile di Pierluigi Pizzi, la direzione coinvolgente e appassionata di Claudio Scimone ne fecero un evento passato alla storia dell’opera lirica. Impresa enorme, chè Claudio Scimone aveva intrapreso lo studio di una partitura che obbligava alla soluzione di molti interrogativi, primo tra i quali la lettura “fedele” del testo e utilizzo per l’esecuzione musicale, del basso continuo dell’ornamentazione delle arie. L’estetica barocca obbligava ogni interprete a una personale fantasiosa creatività nell’ornamentazione del canto e richiedeva sicure capacità d’improvvisazione, poiché non tutto era scritto in partitura. Il pubblico del tempo frequentava i teatri non solo per ascoltare la musica del compositore di turno, ma anche e molto per essere meravigliato e stupefatto all’inventiva delle macchine teatrali e stupefatto dallo sfarzo delle scene, oltre a desiderare d’esser travolto dal virtuosismo canoro dei solisti. L’Orlando (non furioso, benché nel manoscritto vi compaia la dicitura) andò in scena al Teatro S. Angelo nel 1727, già ricco di una stratificata storia di un precedente intervento vivaldiano nella collaborazione per un’opera di un compositore minore, Ristori, cui si aggiunsero personali imprestiti di un’opera successiva. Il Maestro
Scimone non aveva la pretesa – per sua stessa ammissione- che la partitura eseguita in quel tempo musicalmente così lontano, fosse di riferimento (era intervenuto con tagli e spostamenti di recitativi e arie) ma fosse un punto di partenza. Le cose sono oggi radicalmente cambiate, le conoscenze a disposizione molto più ricche e cresciuta nel frattempo una generazione di esecutori “storicamente informati”. Resta un profondo senso di gratitudine per Scimone e Horne, varcando l’ingresso del Filarmonico, riandando con la memoria alle incredibili sensazioni provate alle recite del 1978 e nella ripresa del 1979. Lo spettacolo si mostra fantasioso, impreziosito da sfolgoranti costumi, una coproduzione del Teatro La Fenice di Venezia e il Festival di Martina Franca: regia di Fabio Ceresa ripresa da Federico Bertolani, a volte un po’ esagitata nei movimenti; scene di Massimo Checchetto che riesce, con pochi e semplici mezzi, a suscitare e rendere il senso della barocca estetica della meraviglia. Pur con qualche ingenuità (quel risibile ippogrifo, pur liberamente mutuato da un dipinto di JP. Krafft), sfrutta elementi fissi d’effetto muovendoli con maestria e intelligenza: la reggia-a-conchiglia di Alcina, il naufragio di Medoro con mare in tempesta, e la geniale quanto minimalista soluzione dell’atterramento del muto Aronte. Fastosissimi i costumi di Giuseppe Palella e luci di Fabio Barettin che valorizzano gli elementi scenici. Va detto che l’acustica del Filarmonico non è fatta per valorizzare le voci, che non riescono a espandersi se non quando il cantante si presenta al proscenio. La bontà di un cast tutto italiano, in piena padronanza del significato e valorizzazione della parola, rende giustizia alla piena fruizione di libretto, coltissimo, di Grazio Braccioli. A differenza dell’edizione andata in scena al Teatro Malibran, qui il cast è formato interamente da voci femminili, senza impiego di controtenori (a Venezia eran ben due) che avrebbero giovato a variare la stretta omogeneità della tavolozza timbrica colori vocali, dato anche il buon livello che oggi hanno raggiunto i falsettisti. Alcina era Lucia Cirillo voce non voluminosa ma penetrante che usa in maniera gustosa e sapida, anche se tende a gonfiare i suoni nell’articolazione dei recitativi, quando vuol simulare sdegno rabbia o furore e la voce tende a stimbrarsi. Sempre appropriate nel canto, agile nei passi fioriti, chiude bene l’opera con l’aria in tempo rapidissimo Anderò, chiamerò dal profondo, pur con qualche acidità e asperità di troppo. Angelica aveva la voce di Francesca Aspromonte che nell’aria di sortita Un raggio di speme, esegue in maniera scintillante, fluida nella coloratura, con qualche strappo negli acuti, che tende a spingere con conseguente distorsione di suono. Brava attrice, sensuale e ammaliatrice. Teresa Iervolino fa valere nel protagonista Orlando la consumata esperienza nel repertorio barocco, disegnando un eroe pregnante e intenso nel recitativo accompagnato che precede la virtuosistica aria Sorge l’irato nembo. Rapinosa esecuzione nella veloce vocalizzazione eseguita con intensità e turgido spessore, sia nel canto sia nell’espressione, dando pieno valore al potere della coloratura quando usata a fini espressivi e non solamente edonistici. Si sarebbero desiderate variazioni meno parche e modeste nella ripresa dell’aria. Non la impensierisce Troppo è fiero, il nume arciero, così come nelle altre aria di bravura; sempre efficace e trovando il giusto accento negli ariosi o nei recitativi accompagnati, di modernità sconcertante e sottigliezza psicologica. Infine l’altra grande aria di bravura, Nel profondo cieco mondo, ben eseguita e partecipata, avrebbe acquistato maggior risalto con variazioni più fantasiose e ricche. Toccante nella scena della pazzia, Io ti getto, in cui da prova di poliedricità scenica. Unico remarque qualche suono poitrinè di troppo. Bradamante di Chiara Tirotta mostra in Asconderò il mio sdegno, la bellezza di una pulita linea di suono e una squisita musicalità, impreziosendo il suo canto con smorzature; un po’ debole nella coloratura di forza, che tende a spianare. Brava in scena, sottile nel suo dire, ne fanno una briosa e sapida attrice. Accettabile Medoro di Laura Polverelli, con tendenza a spingere gli acuti. Il Ruggiero di Sonia Prina, mostra incipiente usura vocale per continue prese di fiato che spezzano la nobiltà del legato, tuba le note basse a coprire un timbro impoverito, scurendo innaturalmente il suono. Il canto risulta così artefatto. Le tocca una delle arie più patetiche dell’opera, Sol per te mio dolce amore gonfia i centri e non brillando per scintillio di vocalizzazione, e di finezza del legato. Nella gara di bravura con il flauto non raddoppia il fascino espressivo e l’intensità e magia musicale che in quel momento il flautista va operando… omaggiato da prolungato applauso a scena aperta. Fa comunque valere la sua consumata frequentazione del repertorio, con un fraseggio insinuante. Infine in Come l’onda, aria in tempo rapido naufraga nel vorticoso susseguirsi di suoni aperti e gonfiati, travolta da un’orchestra insinuante. Astolfo Christian Senn mostra un timbro opaco, a tratti pesante, incapace di rendere il godimento del canto barocco, spianando la coloratura. Timbri pastosi e scintillanti offerti dall’Orchestra Fondazione Arena di Verona diretta da Giulio Prandi, in perfetta pulizia di suono e brillantezza di ritmo, anche se alla lunga il direttore tende più alla perfezione formale della partitura che a farne vibrare le corde degli affetti. Ottimo concertatore, mostra perfetta intesa con i cantanti, che serve al meglio. Lacunosa invece nella fantasia e nell’audacia delle variazioni delle arie. Pregevole l’intervento del flauto solo così come impeccabile l’abile resa del basso continuo. Non entusiasmanti gli interventi del coro, di soli elementi femminili. Successo calorosissimo, con ovazioni per la protagonista Iervolino da parte di un pubblico purtroppo non numeroso.
gF. Previtali Rosti