Siccità. Da una pioggia che consola, a una pioggia che batte, a una pioggia che manca

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“Ad eccezione di Abele e di Caino / Tutti quanti sono andati a far l’amore / Aspettando che venga la pioggia / ad annacquare la gioia e il dolore” cantava De Andrè nel 1974 in “Via della povertà”, la sua reinterpretazione di “Desolation row”, di Bob Dylan. E canta di una pioggia purificatrice, con cui, tutto sommato, si può anche scherzare, che arriverà. Prima o poi, arriverà, e nel frattempo tutti quanti, o quasi, sono andati a far l’amore.
Venti anni dopo, nel 1994, un film cult del genere gorico come “Il corvo”, ci restituisce un rapporto molto diverso tra il protagonista Eric Draven e la pioggia. “Non può piovere per sempre”, ripete Eric, o meglio il suo spirito, tornato a vita in cerca di vendetta contro i suoi carnefici. Lo ribadisce per ricordare anche a ciò che resta di sé che la realtà distopica di cui è stato vittima, e che sembra ancora dominante, è destinata a terminare. È una pioggia molto diversa: insistente, dura, crudele. La si può però guardare in faccia e affrontare, si può sperare che torni il sereno.
Anche quella di Paolo Virzì, ventotto anni dopo “Il Corvo”, nel suo “Siccità”, un po’ commedia e un po’ dramma, si può probabilmente definire una distopia. Una distopia, purtroppo, sinistramente simile alla realtà che, di giorno in giorno, si va formando sotto i nostri occhi. Anche Virzì parla di pioggia, in un certo senso, ma per la sua assenza. Il problema è proprio quello: a Roma non piove ormai da mesi. C’è chi analizza, chi informa, chi si indigna, chi protesta, chi si affanna, chi cerca in quel dramma un’occasione. Ciascuno però è solo: la frammentazione ha superato la soglia del tessuto sociale: l’aridità protagonista dell’intera vicenda si estende anche ai rapporti tra individui, persino tra familiari. Ciascuno, o quasi, mentre il mondo gli crolla intorno, tiene lo sguardo ben fisso sullo specchio delle proprie illusioni, reali o virtuali. In un mondo che si muove in fretta, manca il tempo per la realtà. E della pioggia, che sia salvifica o battente, sembra scomparsa anche la speranza.
“Si sta come color che son sospesi”, in un Limbo terreno che, come la sua versione dantesca, siamo costretti ad ammettere, ospita, perlomeno in larga parte, gli ignavi. E così si procede in ordine sparso, di stranezza in stranezza, di dramma in dramma. Eppure…già, eppure. Eppure un ragazzo si innamora di una ragazza, e lei di lui, e ancora non hanno trovato il coraggio di dirselo.
Eppure un padre disperato riesce infine a trovare l’occasione e la forza di guardare la figlia negli occhi e chiedere scusa, per la sua irrimediabile colpa. Malgrado tutto, più per caso che per scelta, la musica suona, in un concerto barocco, forse disperato, ma a suo modo orgoglioso. E allora, distrattamente, capita di levare lo sguardo in alto: chissà. Chissà che non possa esserci, nonostante tutto, una nuova occasione.

Damiano Verda

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