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La Pasqua senza Papa di Raffaele Aufiero

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Pochi autori  sono capaci di trasferirsi, tradursi in forme culturali, linguistiche e dialettali distanti dalle proprie origini. Per riuscirvi bisogna effettivamente trasmigrare anima e corpo in altre dimensioni, epoche, ambienti e linguaggi. Famoso è il manzoniano “bagnare i panni in Arno”, dove però per il grande Alessandro ciò significava solo l’adozione di un codice espressivo fiorentinocentrico. E dico “solo” perché, se un limite si può trovare nel capolavoro della letteratura italiana, ebbene esso va cercato nell’adeguamento dello stile  a questo codice espressivo imposto dalla dominante cultura.

Da qualche parte credo che Pasolini riprendendo un concetto di Gramsci abbia definito “l’italiano come il dialetto parlato coi fucili”. E cito PPP perché proprio Pasolini inverte  e sovverte il diktat accettato, suo malgrado, da Manzoni: lui friulano doc si immerge  piuttosto anima e corpo nel dialetto romano dei “ragazzi di vita”. E’ grazie a Pasolini insomma che la letteratura vernacolare assume una valenza nazionale.

Faccio qui l’esempio di Pasolini, con tutti i limiti del caso, er sottolineare come l’operazione letteraria di Raffaele Aufiero di ambientare il suo romanzo nella Roma papalina, arricchendolo di elementi e motti popolari, poteva comportare il rischio di sembrare costruito anziché “vissuto”.  Per Aufiero, campano doc, che quando lo vedi e lo senti parlare ti vengono in mente alcuni personaggi di Raffaele Viviani, altro che Raffaele Aufiero, il rischio di incappare nel macchiettismo o nello storicismo libresco  infatti c’era eccome.

Invece il Nostro  ha assorbito  l’aria e la polvere dei secoli della Città eterna nel suo pluridecennale lavoro di bibliotecario presso la Vallicelliana alla Chiesa Nuova di Roma e ne ha fatto buon uso. Del resto,  dal suo scranno in sala di lettura  ne ha vista passare di storia della romanità, di personaggi antichi e moderni, di politici e prelati, giovani baldanzosi come le figure degli stucchi dell’imponente scalinata che introduce alle maestose aule stipate di tomi preziosi. Ed è proprio tra tomi e manoscritti che Raffaele Aufiero ha maturato il nucleo narrativo del suo romanzo “Pasqua senza papa” (edizioni dell’Ippogrifo), tra un prestito e una ricerca bibliografica, con i suoi spessi occhiali che ingigantiscono i suoi occhi da bambinone che sa di aver fatto la  marachella di dedicarsi a letture e scritture in proprio  durante l’orario di sala.

Ma sarebbe ingeneroso attribuire  un’origine libresca al suo romanzo. Penso piuttosto che le “scappatelle” di Aufiero dal lavoro per un caffè o per incontrare un amico teatrante, perché lui si occupa anche di progetti drammatici, siano state occasioni di osservazioni e accumuli linguistici, da riutilizzare in chiave narrativa,  aggirandosi tra i banchi del mercato di Campo de’ Fiori o frequentando l’osteria popolare alle spalle della Chiesa Nuova in via del Governo Vecchio. Questo per dire che un’opera di spessore non nasce solo sulla scrivania, ma, come sostenne Goethe e tanti altri dopo di lui, dalla vita vera, reale dall’immersione dello scrittore nella realtà.

Così, se da un lato nel romanzo galleggiano  espressioni libresche come “anfanare da corsa interrotta mescolata in uno strano intruglio di raccapriccio, p. 87” (frase altisonante che come altre probabilmente serve all’ambientazione  ottocentesca dell’opera), ecco comparire personaggi più “svaccati”, in primis  Moccoletto. Il quale è portatore di un contesto popolare necessario al romanzo, per controbilanciare l’assunto storico-letterario che, in mancanza di contraltare, risulterebbe antiquato se non pedantesco. Così il capitolo “Er poeta de Roma” (p.67) chiaramente allusivo del Belli viene però introdotto con tono ultraletterario, per contrasto: “Compulsato dal flusso ostativo di quei ricordi” riferito al Poeta che alla fine del capitolo si produce in una vera e propria pasquinata su “Ppio Nono”. Insomma, una riuscita combinazione di spunti, alti e bassi, letterari e volgari,  che messi in un frullatore narrativo drammaturgicamente adeguato dà un prodotto ben frullato.

La storia verte su un bambino rapito e la richiesta di riscatto, un mancato accordo sulla liberazione dello stesso, una missione pericolosa e un “risolvitore”…

Sono questi insomma gli ingredienti tipici della narrativa d’avventura in quest’ultimo romanzo di Raffaele Aufiero: anno 1849; a Roma la Repubblica appena costituita già in crisi, mentre i papalini invocano il ritorno del papa esule a Gaeta; dalla Francia è in viaggio un esercito al comando del generale Oudinot per liberare lo stato pontificio.

I Repubblicani al potere ordiscono un maldestro piano per “distrarre” l’attenzione del generale francese. Ma il piano fallisce, le sorti della Repubblica sempre più incerte e il destino del piccolo rapito, in mano ad una banda di briganti nel basso Lazio, ancora più compromesso.

Alcuni fedelissimi di Pio IX (cardinale Antonelli, principe Alessandro Torlonia e Michelangelo Caetani, già collaboratori del Papa Re in affari di stato e polizia) incaricano della liberazione del piccolo, che si rivelerà essere figlio di Oudinot, certo Jan Thadeus Mniszech, molto ascoltato in curia,  addestrato al contrasto del brigantaggio e conoscitore dell’ostile territorio tra Ciociaria e Terra di Lavoro perché in passato comandante di una guarnigione del Corpo dei Carabinieri Pontifici a Ferentino ma personaggio sfuggente, enigmatico e della cui genitura paterna si rimarrà incerti per tutta la lettura del racconto in una continua curiosa morbosità.

Azione e sentimento, verità e illusione in un carosello di complicità con il lettore che l’autore, come in altri precedenti romanzi, predispone, creando avventure in cui personaggi reali interagiscono con creature immaginarie per alimentare storie da leggere attraverso la lente della provocazione storico-letteraria.

Enrico Bernard

 

Raffaele Aufiero
PASQUA SENZA PAPA
romanzo
edizioni dell’Ippogrifo
pagine 210, 16,00 Euro

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