Alberto Toni, Tempo d’opera (Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2022)

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Diamo atto alla giovane casa editrice romana (attiva dal 2021) de “Il ramo e la foglia” di una scelta e cura di pubblicazioni mai banali, sempre attenta nel riflettore di scritture ora rivelatorie, perché all’esordio, ora alla conferma, anche storiografica nel merito di autori più che antologizzati il cui dettato non cessa anche post mortem di interrogarci. Come nel caso di Alberto Toni, figura di assoluto livello nella produzione poetica a cavallo del millennio che stiamo attraversando, i cui strattonamenti, le cui divisioni, le cui anche non pacifiche risonanze si sono intrecciate in questa scrittura nel bene di una custodia che ha dapprincipio nell’umiltà che viene dall’ascolto, e dunque dal silenzio, il motivo, nell’unità nel disagio, e nel dolore il suo rimesso richiamo, la sua letizia. Già in questo potremmo dire quel tempo che è nel titolo, quell’opera prettamente umana avvinta nel legame, in ognuno, per ognuno per come è data, in quanto data nei giorni che avvicendandosi ci mutano al compito nel suo dire. Così quest’ultimo lavoro nel segno sì di una fine annunciata e prossima ma non vincente, semmai, sottesa e riflessa, figura di un ritorno cui tutto nel tempo unico del compimento scompiglia e attesta nell’anello di un mistero che ha nella condivisa presenza tra gli uomini la sua più eterna e diretta pronuncia, il suo assenso.

Questo semplicemente a introdurre la natura del testo cui è bene, però, data la particolarità ricordarne la nascita come raccontato da Roberto Deidier che ne ha curato la pubblicazione e poi la prefazione. Giacché, al momento della scomparsa (nel 2019), Toni stava lavorando a una serie di liriche (Nuove poesie 2018-2019, in formato word) senza intenti immediati di pubblicazione ma già nell’evidenza di una compattezza organica che ne ha consentito poi, edulcorata dai naturali refusi, l’accesso alla stampa nel valore di un poeta (senza dimenticarne le alte qualità critiche) come detto tra i più interessanti della sua generazione (classe 1954). Se allora come correttamente scrive Deidier  questa raccolta finale ne registra l’intero percorso, ci pare propedeutico e utile per chi vi si accostasse per la prima volta riportare brevemente alcune riflessioni, come quella di Roberto Bertoni ad esempio che ne sottolinea la capacità di muoversi “dentro una radice comune, configurandosi come esperienza di una religiosità laica, dentro gli avvenimenti della storia e un vissuto privato”. O di Eraldo Affinati:”Poeta di vocazione universale che lasciato filtrare nei suoi versi il sentimento di una ineluttabile distanza dalle cose del mondo. Tale inclinazione interiore non ha prodotto né il disincanto degli antichi né ha vanificato il suo procedere onesto”, piuttosto, come si diceva, “nella conquista del plurale, argine alla possibile deriva e atrofia dell’io”, il tutto grazie a una “scrittura curatissima e sorvegliata sprigionante una semantica diffusa di tradizione novecentesca ((laureato con tesi su Sandro Penna) con echi e assonanze difficili da fermare”. E di Marco Vitale in ultimo riprendendo da Deidier la rivelata “spaesata sorpresa del mondo” aperta sempre a e dentro un ripercorrente “inizio quale reagente che dirada le ombre e le fuliggini e squaderna una promessa, una speranza, una chiara immagine”.

Di questa immagine proviamo con lui a tenere le fila nel passaggio che, vien da sé ma non in modo scontato, uomo da uomo nella parola ci è consegnata. Ed è a proposito di ogni cosa e il suo tempo, come da Ecclesiaste, e di consegne il suo restarvi in paziente e trasfigurante corrispondenza e più che mai nell’ultimo nelle doti anche plastiche di un’ arte che detta trasfigurazione sa servire nella fedeltà di una promessa che viene da una domanda: “Tutto perché ci sia luce e verità,/qualcosa che ci dica dov’è il luogo e che luogo”. Luogo per Toni, sapendosi insufficiente e superabile, dato per sdoppiamento e identificazione nella reciprocità, e nel turbamento della crepa, “misura che incide ” in cui è racchiusa “tutta nell’ultima radice/una pura intuizione, bellissima fede: un cielo” (così, per gli “smarriti al dubbio”). C’e un brano su tutti, a nostro dire, in cui ciò è magnificamente e compiutamente espresso, ed è “Tremavi“, in cui nel percorso del male, nella grazia anche della sua violenta esposizione, del lascito se il lascito è quello di chi come lui riconosciuto nella deflagrazione dei propri demoni chiede sostegno:”l’altro che a me vicino consumava le scarpe nella/ cura. Gli ho detto che potevamo camminare insieme,/stendere i piedi e parlare per un po’, sembrava,/lui vivo, il Cristo morto del Mantegna, così livido, così/perduto”. Ogni storia è la propria storia, la propria storia per gli altri, sfinita la “verità dopo i muri infranti,/e i nomi li ricordo, sono per me, saranno/il libro aperto, il respiro, il lascito leggero”. Ecco in questa strattonata e finalmente aperta verità di noi e delle cose, sì qui proprio dove il termine si affaccia la bontà del reinizio accennata da Caporali, l’incisione a restare nella definitiva comprensione del percorso.

Un percorso il cui passaggio nella presenza di cari e amici (anche scomparsi nell’educazione sentimentale e d’arte), dato principalmente, naturalmente dalla cara moglie Patrizia cui gesti, riflessioni, silenzi, rapporti del sé, del noi son richiamati è l’evidente abito di una perseguita e rincorsa abitudine all’amore. L’amore inteso, certo, come nuda disposizione a ciò che nonostante noi, e grazie a noi, ancora è, accade e salva se nella cura e nel battesimo dei nostri frammenti per dirla con Luzi, se ognuno dell’altro dello sforzo partecipe e salvevole testimone. Questo è dunque l’atto di resistenza di cui parla Deidier nella prefazione nella chiusura del cerchio al termine della vita, questo a proposito di ciò che ebbe a sua volta a scrivere già Giorgio Linguaglossa il racconto ininterrotto del «non finito» rovesciato però dalla sua insufficienza alla sua accettazione perché proprio nel non finito l’inclusiva chiamata, e risposta dell’uomo a una opera non solo individuale ma collettiva e che è per sempre anche quando la morte ci chiama a lasciare. Ecco, altro, molto ci sarebbe ancora da dire ma su queste riflessioni al momento preferiamo fermarci facendo appello a questi versi per dire del mondo il tempo giusto:”E diventiamo più umani, il cielo non ci risparmia/la terra diventa più accogliente, e il verso, il verso/segue la sua storia, non arretra ma scava il suo percorso,/d’aria, respiro, di ciò che vede e sente, ricuce, guida,/avvicina. E sentilo, sentitelo quando non c’è altro/e l’ombra che somiglia al sonno, tra i nomi e le cose”.

Gian Piero Stefanoni

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