I giganti della montagna di Luigi Pirandello sono stati, fin dalla prima messa in scena[1], avvolti in un’aurea di mistero: il mistero del finale. Come noto si è dato credito alla testimonianza del figlio Stefano Landi che raccolse, a quanto afferma, gli ultimi lampi di genio paterni ricostruiti nell’appendice del capolavoro conclusivo dell’opera pirandelliana. Ma Stefano era drammaturgo in proprio e probabilmente vi aggiunse un po’ di farina del suo sacco proponendo un finale a mio avviso superfluo.
Voglio forse mettere in dubbio la buona fede del figlio Stefano Landi Pirandello? Intendo qui discutere la sincerità dell’episodio della “confessione” del padre morente circa l’eventuale atto ancora da scrivere del capolavoro conclusivo della sua opera drammaturgica? In primo luogo ci sarebbe da considerare la lucidità dell’Autore che avrebbe immaginato, preda dei fantasmi della notte (cfr. Stefano Landi) e della morte imminente, una sorta di finalino piuttosto banale non ascrivibile al genio pirandelliano. Ad esser sinceri non darei molta retta su questo punto a Stefano. Non per mancanza di fiducia o per metterne in dubbio le qualità artistiche e umane. Ma è sempre meglio diffidare delle testimonianze degli autori stessi sulle loro opere, poiché si tratta spesso di elucubrazioni, fantasie o di mezze verità. Figuriamoci allora come possono stravolgere la realtà addirittura i report dei figli, soprattutto se troppo coinvolti o cointeressati a mettere il proprio nome accanto al genio paterno.
Il dubbio è allora che Stefano possa avere aggiunto al testo alcune sue elaborazioni da melodramma come la morte di Ilse, la bolsaggine dei Giganti che sbattono sprezzantemente un po’ di contante in faccia ai teatranti pur di sbarazzarsene. Se così fosse allora i Giganti verrebbero ad aggiungersi con secolare ritardo agli sforzi di Scaramuccia de Il mondo alla rovescia di Tieck (1798) che scende da un ipotetico monte Parnaso in modo grottesco e rozzo, rumoroso e ruttante, per sgombrare il palcoscenico dai commedianti, i quali invece sono lì per far tornare la poesia agli splendori del passato. Vero che Pirandello attinge spesso a piene mani da Tieck[2] ma in questo caso per fortuna egli si ferma al momento giusto per non ripetere una situazione tipica del drammaturgo romantico tedesco.
In realtà la grandezza dell’opera pirandelliana è racchiusa nella straordinaria battuta che chiude il terzo atto – e, a mio giudizio, l’opera stessa: Io ho paura! Ho paura! Una battuta di straordinaria efficacia che sembra scaturire dall’horror vacui dell’Autore in punto di morte, ma anche – e bisogna sottolinearlo – dal sentimento del tempo (corre il 1936) in cui si sta palesando lo spettro della distruzione che arriverà di lì a poco. Un duplice, dunque, presagio di morte, anzi triplice: personale, culturale e storico.
Direi allora che il finale escogitato da Strehler nella sua mirabile versione sia più in linea col tentativo drammaturgico dichiaratamente estraneo a Pirandello, ma assolutamente congeniale all’opera, di calare di botto una pesante cortina di ferro sul palcoscenico che frantuma il carro dei commedianti ridotti a parvenze erranti in un mondo in guerra come la brechtiana Madre Coraggio.
Se è vero com’è vero che il sale di Pirandello brucia sulla ferita dell’arte terrorizzata dall’avvento dei Giganti, ecco il che il pepe di Brecht aggiunto da Strehler fa esplodere il bubbone del nostro tempo: il vuoto culturale. Così piuttosto che rispondere alla domanda (vedi l’interessante saggio Pirandello: La parola, la scena, il mito di Donato Santeramo, NEU Edizioni) sull’origine etimologica e geografica di queste presenze dominanti e opprimenti, bisognerebbe chiedersi dove esse siano dirette e che intenzioni abbiano.
E dove possono andare i “NUOVI GIGANTI” ribattezzati da una trasmissione televisiva popolare (Striscia la Notizia) “I NUOVI MOSTRI” se non in televisione? E che cosa possono volere se non quella che Lukàcs in un fondamentale saggio definisce La distruzione della ragione (e del teatro anche nella recente versione di Gabriele Lavia)?
[1] 16 ottobre 1947: Giorgio Strehler mette per la prima volta in scena (in via Rovello) “I giganti della montagna” di Luigi Pirandello, uno spettacolo al quale tornerà altre due volte, nel 1966 e nel 1994, in entrambe le occasioni al Teatro Lirico. Nell’immagine, proveniente dall’Archivio del Piccolo, da sinistra Camillo Pilotto, Lilla Brignone e Gianni Santuccio.
Enrico Bernard
[2] Cfr. E. Bernard, Pirandello e Tieck, in https://www.academia.edu/7970892/Pirandello_e_Tieck_un_plagio