Silvia non rimembra più

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La Bustina di Diosino, la rubrica di Enrico Bernard

In via del Governo Vecchio a Roma, quasi d’angolo con piazza dell’Orologio, sulla facciata di un edificio tardorinascimentale troneggiava una grande lapide marmorea un po’ annerita dal tempo e dai fumi inquinanti dell’era moderna, comunque leggibilissima. In quella casa nacque il 25 gennaio 1830 il grande Pietro Cossa, drammaturgo italiano del XIX secolo, autore del celeberrimo Nerone e di altri immensi drammi in versi, come il Cola di Rienzo, che hanno dato lustro nel mondo alla letteratura e alla cultura italiana. Il passante distratto poteva cosí apprendere dalle parole scolpite nella pietra un pezzo di storia delle Patrie lettere:

S.P.Q.R.

IN QUSTA CASA
A DI XXV GENNAIO MDCCCXXX
NASCEVA
PIETRO COSSA
CHE L’OPERA GLORIOSA
DI METASTASIO E D’ALFIERI
RINNOVELLANDO
ALL’ITALIANA LETTERATURA
LA TEATRALE CORONA
RINVERDIVA
CON L’IMMORTALI SUOI DRAMMI

MDCCCLXXXII

Tuttavia, nonostante le belle e altisonanti parole, la lapide è sparita da qualche anno. È rimasta solo la cornice grigia che ora ingabbia una fetta del muro a mattoncini romani. La speranza dei negozianti che ho interpellato per avere lumi è che sia stata solo asportata per il restauro sinceramente non necessario – bastava una spolverata e una ripulita; e che, quanto prima, il piú presto possibile, la nostra drammaturgia tornerà a coprire, ad adornare, quel vuoto nel muro che sta lí per ora a simboleggiare l’ignavia e la noncuranza con cui viene trattato il teatro italiano. Teatro che anche a causa delle teorie estetiche crociane del primo Novecento, che hanno pervaso la nostra critica, è stato esiliato dalle letteratura nazionale. Come raggiungere il sublime lirismo della poesia pura con chiodi e assi pieni polvere del palcoscenico che mai potranno sostiuire l’etereo candore della pagina bianca? Una posizione estetica che la borghesia nostrana, impaurita dallo “strumento” del teatro all’inizio dell’Ottocento, quando le armate francesi imposero il Teatro Rivoluzionario Giacobino inneggiante all’uguaglianza, non vedeva l’ora di poter condividere. Cosí mentre le altre culture nazionali, dal Teatro del Sieglo de Oro spagnolo alla Drammaturgia d’Amburgo tedesca e al Teatro Elisabettiano inglese hanno fondato sul e nel teatro „politico“ il proprio concetto di „nazione“ e la loro identità nazionale, noi italiani ci siamo persi strada facendo nei lirismi poetici varii, nelle ugole d’oro e nei bassi baritonali di un’opera lirica certamente „sublime“ dal punto di vista musicale, ma comprensibile solo ad una classe agiata e colta frequentatrice, potendoselo permettere, di Teatri dell’Opera, non certo ad un popolo semianalfabeta. E risparmiatemi la retorica risorgimentale delle arie verdiane cantate nei mercati in segno di protesta contro l’occupante austriaco: Arlecchino e Pulcinella, se permettete, sanno parlare al popolo molto piú di Otello e Desdemona ovvero di Aida o Violetta!

Mi si obietterà a questo punto che Roma tiene comunque in massima considerazione il suo figlio Pietro Cossa, tanto da avergli dedicato un monumento in piazza della Libertà, in Prati. Statua erettagli a furore e clamore di popolo che partecipò con commozione e in gran numero ai funerali del drammaturgo. Giustissimo: la statua di Cossa è rimasta al centro della piazza anche dopo la recente ristrutturazione che l’ha resa architettonicamente ancora piú bella. Ma sorge un sospetto: cosa c’è scritto ai piedi del monumento a Cossa? Solo nome e cognome: a Pietro Cossa, punto. Il sospetto è che se lo scalpellino avesse aggiunto „drammaturgo“ o peggio ancora „autore teatrale italiano“ il monumento sarebbe stato rimosso, fuso o abbattuto, come è toccato alla lapide. Tanto chi se ne importa di un autore italiano ormai finito nel dimenticatoio? Poeta, passi. Autore, no. Di questo gap culturale, di questa diaspora del teatro italiano dalla nostra letteratura e cultura, di questa forma di idiosincrasia che rasenta l’odio ideologico e politico, tutti gli autori teatrali prima o poi, spesso e volentieri piú prima che dopo, sono costretti a patirne le conseguenze. Semplicemente spariscono dalla circolazione e dalla memoria letteraria. Chi ricorda piú il capostipite della drammaturgia del Novecento Luigi Chiarelli, il capolavoro del quale La maschera e il voltodel 1913 viene rappresentato e studiato in tutto il mondo ma non in Italia? L’elenco degli „scomparsi e cancellati“ della letteratura teatrale italiana sarebbe lungo, sorprendente. Basti pensare agli autori del Teatro Grottesco, tra cui appunto Chiarelli, fino a Savinio che avrebbero qualcosa da dire e ridire anche a un mostro sacro come Samuel Beckett!

Giova raccontare un recente aneddoto personale. Ricevo una telefonata una nota attrice che dirige un importante teatro romano.

– Mister Bernard, mi fa, ho letto un suo testo bellissimo che sembra scritto apposta per me. Lei quando è a Roma, possiamo incontrarci?

Rispondo: Signora: anche domani.

E lei: perchè aspettare domani, non può oggi pomeriggio? Sa, non sto nella pelle di parlarle.

E sia, facciamo alle cinque.

Ma alle cinque della tarda l’atteggiamento della Signora è cambiato. Non sono piú Mister ma… Signor: ahimé il suo testo è molto bello, però… però (ha la voce rotta, simula un principio di crisi isterica) ho scoperto una cosa terribile su di lei.

Cado dalle nuvole: cosa ha scoperto di cosí terribile, signora, su di me?

Oddio, si porta la mano alla fronte e recita un semisvenimento, LEI E’ UN AUTORE ITALIANO. Lei è Bernard senza la Acca, capisce le manca una Acca per essere Thomas Bernahrd come avevo creduto e sinceramente sperato. Per questione di botteghino, ministero, finanziamenti, sponsor, capisce?

Capisco, mentre in tutto il mondo si difende la drammaturgia nazionale, qui da noi la si ostacola, le si rende impossibile la vita.

Ecco così che la piccola lapide che stavoiscrivendo a me stesso sul muro di qualche caseggiato è miseramente crollata come la lapide in onore di Pietro Cossa: destino comune di molti, anzi della stragrande maggioranza degli autori italiani, anche quelli che hanno ottenuto successo e sono passati alla storia di quelle Patrie Lettere che non ci hanno messo però molto a cancellarli.

Ma l’aneddoto che ho raccontanto ha una coda. Dopo l’infruttuoso incontro con la signora del teatro italiano, mi dirigo mestamente alla libreria Feltrinelli: è da poco uscita presso Garzanti la raccolta delle opere teatrali e degli scritti di cinema di Verga. Il commesso della Feltrinelli scuote il capo, devo ripetergli tre volte il nome dell’autore VERGA, VERGA, GIOVANNI VERGA. Finalmente il computer termina la ricerca: ci sono due copie, due sole copie in circolazione in tutte le librerie Feltrinelli in Italia.

Al povero addetto della Feltrinelli allora ho chiesto un romanzo di Cesare Zavattini edito da Bompiani Totò il buono da cui De Sica ricavò il capolavoro del neorealismo italiano Miracolo a Milano. Niente da fare, lo ristamperanno chissà quando. Allora mi dia Tre operai

di Carlo Bernari (10 edizioni Oscar Mondadori recentemente ripreso da Marsilio): macchè sparito dai cataloghi. E Vasco Pratolini, tra i maggiori narratori del Novecento? Forse, ma ripassi, ci facciamo mandare qualche copia da Firenze. Se arrivano…

Morale della favola: la leopardiana Silvia che può essere invocata come nume tutelare della letteratura italiana sta perdendo la memoria della propria storia. Prima obliando i due terzi del proprio DNA che è principalmente teatrale, poi sfilando i mattoni del Novecento, del neorealismo, quindi omologando i cataloghi delle case editrici in un unico calderone editoriale: il mostro Mondadori.

Di questo passo cancelleranno anche Dante Alighieri. Prima o poi.

Enrico Bernard

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