Teatro La Fenice, Venezia, dal 04 al 13 novembre 2016
Non ero nato quando il mare tentò di inghiottire Venezia. Posso però, da veneziano d’elezione, farmi voce di quell’amore intenso e contrastante che noi locali proviamo per la laguna. Da sempre conviviamo con i suoi capricci, da quando a novembre sommerge le rive a quando d’estate odora di freschin. Ci regala tramonti da sogno, bufere repentine, bagliori dorati nelle splendide giornate solatie. Eppure, cinquant’anni fa, l’acqua sembrò disconoscerci. Il 4 novembre 1966 Venezia e tutto il litorale si svegliarono dentro l’Apocalisse. L’incessante scirocco aveva gonfiato il mare a tal punto da rompere i murazzi di Pellestrina, muraglie che per secoli avevano protetto la Serenissima dalle insidie marine. Per 25 ore la marea non scese sotto i 194 cm.
Il Teatro La Fenice due anni or sono commissionò al maestro Filippo Perocco un’opera per inaugurare la stagione 2016-2017 a ricordo di tale catastrofe. Aquagranda, senza ombra di dubbio un capolavoro, è nella sostanza un rito collettivo, facendo della Storia oggetto su cui concentrare energie che, da quel che si vede e si sente, non potevano essere spese meglio. La musica di Perocco è di rara efficacia. Caro al compositore è il concetto di detrito, quasi un anelito a poter manipolare la materia sonora come materiale plastico. A ciò si unisce la dedizione per l’esiguità del suono, quasi a confondersi col silenzio. Dal silenzio nasce e muore Aquagranda, come dal nulla cresce e cala la marea. Gli ampi margini descrittivi forniti dal tema naturale vengono accantonati per prediligere una ricerca musicale più variegata fatta di scarti tonali, timbri minacciosi, tremoli, fruscii e rimandi evocanti un pericolo percepibile e inquietante. Non mancano richiami alla tradizione veneziana, quali i canti di lavoro e il madrigale, e l’impiego di live electronics.
Il libretto, tratto dal romanzo-dossier Aqua Granda. Il romanzo dell’alluvione (1996) di Roberto Bianchin e steso in versi da Luigi Cerantola, è di una poeticità spiazzante. Musica e parola inanellano la vicenda di Fortunato e della sua famiglia. Il loro stato d’animo sale a galla tramite parole ripetute o espressivamente intensificate, rigorosamente in dialetto, volte a descrivere in maniera realistica lo sgomento di quella stessa umanità raccontata da Bianchin.
D’indiscussa incisività la scena curata da Paolo Fantin. Un parallelepipedo, più stretto di quello impiegato per Samson et Dalila all’Opéra di Parigi, si riempie gradualmente d’acqua per poi alzarsi e rovesciarla copiosa addosso ai mimi-danzatori durante un intenso intermezzo orchestrale. La tensione, accompagnata magistralmente dalla musica, è degna del miglior Hitchcock perché instilla nello spettatore un progressivo senso d’angoscia e partecipazione, mentre visivamente l’effetto è simile alle suggestioni proposte da Bill Viola alla Biennale d’Arte 2007 con Ocean Without a Shore, installazione video in cui performer attraversavano un muro d’acqua inizialmente impercettibile. Ai lati del palcoscenico i coristi, omaggio ai cori spezzati e alla tragedia greca. I colori della laguna rivivono grazie al light design di Alessandro Carletti, composto di luci verdognole e bluastre, e alle proiezioni di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, cantori della Pellestrina che fu e che è. Semplici e colorati i costumi di Carla Teti – impermeabili, cappotti e stivali di gomma – per gli isolani, eterei per i mimi, pagane creature marine.
Damiano Michieletto concede ai protagonisti minimi spostamenti, senza mai perdere la coerenza drammaturgica col testo, mentre le controscene affidate ai mimi-danzatori, sotto la guida di Chiara Vecchi, mantengono sempre fluido il ritmo narrativo. Essi infatti interagiscono con i personaggi come forze ancestrali cui è riservata la celebrazione della catarsi per abbandonarsi poi, dopo l’inevitabile, in innocenti jeux d’eau, palese omaggio a Vollmond (2006) della grande Pina Bausch.
La direzione di Marco Angius risponde con vigore e precisione alle richieste della partitura, evidenziando le mille angolature del linguaggio di Perocco.
Buono il secondo cast. Francesco Milanese e Paolo Antognetti, rispettivamente Fortunato ed Ernesto, dimostrano ottima padronanza della voce, restituendo due personaggi ben resi nella loro complessità. La Lilli di Livia Rado e la Leda di Valeria Girardello si assestano su una linea di canto pulita, versatile e convincente. Bravissimo il giovane Tommaso Barea nei panni del farmacista Luciano. Bene anche Christian Collia come Cester, nel non facile ruolo di tutore dell’ordine, in bilico tra autorità e commozione. Completa con competenza il cast Vincenzo Nizzardo, Nane partecipe.
Il coro, preparato da Claudio Marino Moretti, riporta alla luce quello smalto su cui ultimamente si era adagiata un po’ di polvere.
Teatro quasi completo alla recita del 6 novembre da parte di un pubblico attento che ha tributato sinceri applausi all’intera compagnia e al compositore.
Luca Benvenuti