Spazio Banterle, Milano, dal’8 al’11 dicembre 2106
Un testo straziante, crudo, poetico, realistico, bello pur nella sua triste conclusione, un’interpretazione quella di Elena Arvigo sentita in ogni sfumatura, virgola, cambi di tono, pensieri fuori campo, silenzi, sguardi, pianti trattenuti, sfoghi senza freni, una regia firmata Valentina Calvani che con pochi ma efficaci elementi scenografici, ricostruisce il mondo dilaniato della mente di Sarah Kane, è questo 4:48 PSYCHOSIS. Testo completato poco prima che la poetessa e drammaturga inglese si suicidasse, nel 1999, impiccandosi con i lacci delle proprie scarpe.
Molte volte, troppe, si parla di follia, soprattutto riferendosi alle donne artiste che si sono tolte la vita, commettendo un atto di grande coraggio. Liquidarle semplicemente e velocemente con una parola che fa paura, a volte sussurrata per vergogna, altre, urlata per disprezzo, è un’ingiustizia che fanno molto spesso l’opinione pubblica, i benpensanti, le famiglie, anche i medici, e che nasconde in fondo , incapacità di penetrare le loro menti, le loro anime, di ascoltare i loro gridi di aiuto e di dolore, di risolvere le loro sofferenze.
Se aggiungessimo invece l’aggettivo lucida, lucida follia, capiremmo tutti meglio che questo stato mentale, comune agli artisti, quelli veri, è spinta, ardore, passione, sacrificio, talmente forti da innalzarli dalla massa, e di conseguenza, da isolarli da essa, fino al rifiuto, al ludibrio, alla critica, all’invidia, fino a spingerli, talvolta, a commettere il suicidio.
La loro lucida follia è forza creativa, come pure forza distruttiva.
Sarah Kane, in questo monologo finale, fa quasi un bilancio della sua vita e non ha pietà verso se stessa né verso gli altri. Lucidamente si considera “spiacevole” “inaccettabile” “impenetrabile” “irrilevante” “irriverente” “impenitente” “irrispettosa” “irrazionale” “irriducibile” “deforme”… E’ forse follia questa?
“Il bisogno vitale di essere amata” “l’amore che mi tiene prigioniera in una gabbia di lacrime” “essere perdonata” “essere libera” “lasciare un segno che sia più permanente di me stessa” “ricevere attenzioni” “proteggere me stessa”… è forse follia tutto questo?
Sarah/Elena accovacciata su uno strato di terra e di schegge, inizia il monologo facendo un solitario e dalle carte scoperte, esce la domanda, ironica, “hai un sacco di amici, cos’hai da offrirgli in cambio del loro supporto?”. Capiamo che all’interno del monologo gli interlocutori sono il dottore e quella parte di se stessa che non ha mai conosciuto. Con loro parla liberamente, cerca aiuto, comprensione, rispetto, amore. E la parola colpa, amore, suicidio, disperazione, “tutto quello che so è neve e nera disperazione”, ricorrono, si rincorrono, sono il leitmotiv di questo testamento finale.
“Sono stata morta per lungo tempo, ora ritorno alle mie radici”, ecco il significato di quella terra, in cui lei sprofonderà per tornare polvere, danzando tra le schegge della sua mente “impastata dai farmaci”.
Ma “alle 4:48 quando la depressione mi farà visita non parlerò più-mi impiccherò-al suono del respiro del mio amato”.
Quanto siamo disposti ad ascoltare voci così forti, strazianti, autentiche, in grado di smascherare le nostre incurie, disattenzioni, lontananze, superficialità, indifferenze?
Se non fossimo disposti sarebbe come rifiutare una parte di noi stessi, quella che non è mai venuta alla superficie, quella che abbiamo soppresso ma che c’è, nascosta nel nostro profondo più profondo, perché siamo tutti fatti di bianco e nero, donna e uomo, amore e odio, follia e integrità, bene e male. Sarebbe il rifiuto di ascoltare quel grido di dolore che noi tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo lanciato. A volte siamo stati ascoltati, altre, ignorati.
Uno spettacolo che apre interrogativi, fa pensare, meditare, con la sua forte ed efficace semplicità, commovente e duro, coraggioso e vero, sentito da parte dei protagonisti ma anche da parte del pubblico, che in uno spazio nuovo e interessante di Milano, lo spazio Banterle, dedicato a spettacoli “piccoli” ma di qualità, ha potuto apprezzare quanto il dolore faccia parte della vita, e quanto possa rappresentare una risorsa, una ricchezza, un punto di comunione e di solidarietà tra gli esseri umani.
Grazie al teatro de Gli Incamminati che ci ha portato così vicino a Sarah Kane, per la quale non possiamo non sentire che profondo affetto, apprezzamento per le sue opere e tanto, tanto amore. Quello che lei ha sempre cercato disperatamente e non ha mai trovato.
Daria D.