Un uomo (Antonio Chiarelli) si sveglia su una panchina, evidentemente costernato, turbato, affranto. È il risveglio in un presente avaro di sensazioni positive e perciò dal gusto amaro, dopo che un passato è stato consumato e finalmente si era addormentato. Inizia a camminare, e noi partecipiamo a questo suo pellegrinaggio senza meta, che ripercorre tappe di qualcosa che non c’è più, come a volerle rievocare. Quando compare la figura di una donna (Chiara Sansone) vestita di bianco – colore che risalta maggiormente dalla scelta cromatica del bianco e nero – non solo capiamo che si tratti di un flashback, che quel passato è abitato da una donna, dipinta candidamente e pura, quasi come una vestale greca, ma che a rompersi sia stato proprio un amore. È il puzzle dell’amore che il protagonista tenta di ricomporre nella propria mente, per dare un senso alla sua nuova esistenza, che forse avrebbe voluto si fosse fermata in quel sonno, scomodo e lontano, di quella panchina. Remind di Antonio Lobusto, dal titolo forse troppo didascalico, è un cortometraggio indipendente che cerca di forzare le nostre difese emotive, spingendo sul tema della perdita e del suo ricorso doloroso, del dramma, e del mistero covato, ma senza riuscirci pienamente, reo di avere alla base una sceneggiatura fin troppo scontata nelle sua evoluzione narrativa, e priva di veri slanci drammatici ed originali, seppur fornita di sensi e significati che a maggior ragione avrebbero dovuto avere un miglior trattamento. Il montaggio fa quello che deve (e avrebbe potuto fare di più), giustapponendo presente e passato quando precisi “oggetti” incontrati in questo cammino rimettono al loro posto sentimenti, momenti e colpe, ma il missaggio audio è sporco, e rivela fin più del dovuto la natura “indipendente” del prodotto. Ci sono inquadrature evocative e talvolta iconiche, che rimandano ad “altro”: restano di fatto i collegamenti più efficaci tra presente e futuro, tra ciò che si vede e ciò che si tenta di riportare alla luce, tra il pensiero del protagonista e quello di noi spettatori.
Remind testimonia la sacrosanta verità che nello scrivere e girare cortometraggi, penso anche in generale ma a maggior ragione quelli di natura indipendente che hanno alla base risorse tecniche scarse, le pretese devono essere allo stesso modo minime: perché un cortometraggio deve colpire più per l’idea, l’intuizione che per i contenuti, più per i significanti che per il significato. Non si ha il tempo e lo spazio necessari per esporre un tema e cercare di conseguenza di trasmetterlo, ma si hanno quelli per poter celebrare un’emozione e un sentimento e attraverso questi raccontare un frammento di vita, o in altro modo, per creare tensione, suspense, alla luce di un mistero da svelare, che sia esterno o interno (di un individuo). Così come in Remind anche in A bag le voci sono assenti, e c’è un uomo che cammina, che poi è lo stesso attore. Ma in questo caso porta con sé un borsone. Cliché oltremodo usato nel cinema (anche e soprattutto in quello di breve durata, come nel caso specifico) quello della valigetta che nasconde qualcosa, ma pur sempre efficace nel trasmettere curiosità, perché riguarda lo spirito voyeuristico di ognuno di noi: maestri come Hitchcock o Tarantino ci hanno creato capolavori su questo. Ma il bianco e nero di A bag, l’elemento scenico della borsa, la dinamica dell’inseguito e l’inseguitore (Sante Diomede) non possono non richiamare alla mente l’esordio di un altro grande nume del cinema contemporaneo, Christopher Nolan. Ciò che dà il via alle vicende del suo Following (1999) è proprio la curiosità bizzarra e smisurata del suo protagonista. Lobusto lo conosce, e saggiamente se ne serve, ma cercando di modellarlo secondo il suo personale punto di vista, che si svela solo nel finale, o meglio nell’inquadratura finale. A bag allora funziona meglio di Remind proprio perché ha la pretesa di essere innanzitutto un gioco, un esercizio intuitivo e stilistico, volto a creare, anche attraverso una musica martellante di batteria, un senso di mistero e fremente curiosità. E perché emula un cinema d’antologia, avendo tuttavia l’audacia di proporre la sua versione. La semplicità costruttiva (di sceneggiatura ed elementi scenici), la ridondanza delle scene e di certe inquadrature hanno una loro coerenza di fondo che si esplicita nel finale. Può risultare un corto semplicistico, e ancora una volta imperfetto tecnicamente (missaggio audio e fotografia un po’ blandi), ma è un prodotto compatto che infine dice quello che voleva dire: niente di stravolgente, è vero, ma né qualcosa più né qualcosa meno. E l’equilibrio è sempre fondamentale.
Simone Santi Amantini