“Captain fantastic”, ricercando l’equilibrio nell’estremità

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Se uno scegliesse di andare a vedere Captain Fantastic senza aver letto prima né trama, né altro a riguardo, potrebbe pensare dal titolo di trovarsi di fronte ad un film di supereroi, quelli che sovraffollano il grande schermo del nostro tempo. E non è una predisposizione del tutto sbagliata, perché  la famiglia protagonista del film sembra un po’ una famiglia di supereroi: Ben Cash (Viggo Mortensen) vive con i suoi sei figli in mezzo ad una foresta del Nord America, in modo quasi primitivo e propriamente selvaggio; li addestra fisicamente, per preparali ad ogni possibile variabile della loro vita, e ad ogni situazione che richieda necessità (e solo necessità) di essere affrontata, dal procacciarsi il cibo, ad arrampicarsi e valicare una parete rocciosa; ma li educa anche al sapere, di ogni campo, scientifico e letterario, politico e sociale, passato ed attuale, insegna loro numerose lingue, e ad usare le parole giuste e nel modo corretto, a cercare un dibattito fondato sugli argomenti, verso una profondità di espressione e di connessioni spirituali. Un’educazione antisistemica, contro la società e il consumismo, il pensiero comune e il qualunquismo, contro il dilagare imperante di esseri-umani automi e superficiali: i figli crescono in privazione, sono corpi in contatto con la natura, e menti in colloquio con le grandi menti della letteratura, della musica, della scienza, e anche dei fumetti (compare anche il Maus di Spiegelman in un dettaglio fugace). Una conoscenza del mondo quasi enciclopedica. Ma ancora non completa, bensì deficitaria.

La morte della mamma e moglie, suicidatasi dopo che una grave malattia la stava consumando da tempo all’ospedale lontana dalla foresta, da suo marito e dalla sue creature, porta il padre e i figli a misurarsi con una realtà sconosciuta che nessuna educazione impartita può insegnare, o preparare a subire e superare: la sofferenza, la perdita, il vuoto. Solo la vita erge determinati muri, pone dei limiti incalcolabili e non pronosticabili. Questa famiglia così preparata dovrà allora uscire dalla sua realtà utopica sospesa tra idee platoniche e thoreauiane, per andare al funerale di quella donna tanto amata, entrare nella “normalità”, e fare i conti con il mondo esterno, quello “vero” come si sente dire spesso nel film: quello del business, del comunemente corretto. “L’esperienza è la vita con le ali” diceva lo scrittore libanese Kalhil Gibran. I parametri del mondo etichettano questi individui come strani, “mostri” venuti da un altro pianeta. E l’opera di Matt Ross lascia che sia il pubblico a giudicare, a tirare somme e conclusioni, a mettere in dubbio non tanto il sistema educativo di Ben, o quello di sua sorella, non tanto il suo approccio al mondo o quello dei suoceri (che lo odiano perché lo additano come causa della malattia mentale della figlia), ma i propri schemi personali, quali essi siano, e a quale punto di vista appartengano. Sta di fatto che le crisi si attuano, e la crisi per forza di cose pone in essere un cambiamento. C’è bisogno di equilibrio, perché qualunque sia l’estremo, o l’uno o l’altro, pare comunque sbagliato. Il padre lo capirà, e scenderà a compromessi con quel mondo tanto odiato, senza cambiare la sua natura e i suoi valori educativi, ma capendo che si possono intaccare e provare a cambiare le abitudini di questa macchina infernale semplicemente ergendosi come esempio, come tra l’altro ha sempre insegnato ai suoi figli. Il film di Ross invece a volte perde questo equilibrio. Nei pochi minuti iniziali il regista mostra una caccia tribale che si conclude con il rituale del fegato mangiato dal figlio maggiore: Ross piazza subito l’estremo. E non riesce poi a tenere botta in modo costante, fiaccando soprattutto la parte centrale del film dove si attua lo scontro tra alterità e normalità. La famiglia così speciale talvolta sembra parossistica, se non parodistica, e scivola nei cliché stranoti (gli americani tutti grassi) o nelle forzature narrative: alcuni momenti sono costruiti da sembrare involontari, quando invece non lo sono, risultando anche didascalici; altri invece inseriti ad hoc per ostentare un altro po’ di sapere, far capire un altro po’ ancora la straordinarietà di questa famiglia, sebbene, ripeto, le sequenze iniziali avevano già ampiamente spiegato. Così va a finire che l’unicità si ingabbia in luoghi comuni da normalità, e ne resta soffocata, tradendo una verosimiglianza di fondo necessaria, proprio per non sconfinare nel prodotto supereroistico.

Ma nel complesso Captain Fantastic fa il suo dovere, presenta un’idea forte e trova il modo di farla arrivare, di suscitare riflessioni, instaurando un dialogo con lo spettatore-genitore e lo spettatore-figlio, perché coinvolti innanzitutto da una storia ricca di suggestioni e fascino (anche visivi). Avrei potuto dire “interessante”, ma è una “non parola”.

Voto 7 su 10

Simone Santi Amantini

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