FREDDY FABRIS: i dipinti del Rinascimento interpretati dai meccanici

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Le fotografie rappresentano un modo per ricordare un momento della nostra vita e una memoria da lasciare a posteri. Non importa se esse sono vecchie, rotte o ingiallite. Sicuramente esse sono un modo per ricordare o conoscere i lineamenti di un nostro famigliare, anche di coloro che non abbiamo conosciuto. Le fotografie, un bagaglio di memoria, raffigurano la possibilità di leggere il volto di una persona. Allo stesso tempo attraverso le foto possiamo comprendere come siamo fatti o meglio come ci rapportiamo con la nostra epoca e società. I nostri modi di fare e di vivere e il nostro modo di interagire. In questa prospettiva possiamo distinguere le diversità tra una generazione e l’altra o tra un’epoca e un’altra. A farci notare questo aspetto è il fotografo di Chicago Freddy Fabris, che ha deciso di rendere un omaggio alle grandi opere come “L’ultima cena” di Leonardo da Vinci in un modo decisamente moderno.

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Nella reinterpretazione di Fabris vediamo delle persone che stanno davanti a una tavola da pranzo in cui si trovano anche degli attrezzi da lavoro. Tale aspetto non sta a simbolizzare solo il luogo di lavoro, in cui è tipico trovare degli operai con intorno i loro utensili (gli stessi che simbolizzano un’identità lavorativa), ma allude anche alla nostra epoca, in cui tutto – in particolare i rapporti umani – sembrano meccanizzati in un certo senso. Negli stessi in cui utilizziamo dei concetti – amore, amicizia fratellanza – come se essi fossero degli attrezzi da lavoro. Vediamo infatti che la foto raffigura delle persone che vivono e condividono un determinato ambiente, ma sono distaccati. Il primo distacco lo si nota in quell’uomo che sollazza Cristo. Egli lo rappresenta donandogli un senso di arguzia e di comicità. Quindi il Cristo in questo caso è l’oggetto dell’umorismo, o comunque la foto raffigura una umanità lontana dalla spiritualità. Un contesto che ci fa pensare che la fede è una meccanica priva di valori e lontana dalla credenza vera. Nella foto notiamo che i personaggi fanno un lavoro duro, ma sembrano affaticati. Basta guardare i loro volti che non sono quelli di persone che faticano nel lavoro. Vediamo anche che c’è un distacco da un punto di vista relazionale. Infatti, vicino all’uomo che rappresenta il Cristo, vediamo un uomo che parla al cellulare tenuto dalle mani di un altro, che sembra più che altro interessato ad ascoltare la conversazione telefonica. La stessa cosa, sembra fare anche l’uomo in primo piano sul lato sinistro. Mentre il secondo, sempre sulla sinistra, sembra parlare con l’altro uomo che sta sul lato destro, cioè con quello che indossa la camicia a quadri rossi e strisce nere. Quell’uomo sul lato sinistro con la fascia nera in testa, sembra invece una persona silenziosa. Tipico nei rapporti umani, amicizia o di lavoro. Infatti, in questi ci capitano delle persone che parlano poco, che ascoltano, come se fossero timidi oppure saggi nel senso che comprendono che spesso è meglio solo ascoltare perché parlare significa scontrarsi con certe persone. Sul lato destro, vediamo un giovane che mangia mentre ascolta la persona che interpreta Cristo. Vediamo in questa foto molte sfumature. Il luogo di lavoro dove – come nei rapporti umani odierni – non c’è armonia, ma anzi molto distacco e freddezza che non fa parte di un insegnamento morale, bensì di un atteggiamento della nostra epoca. In questo senso viviamo lontani in un mondo in cui tutto sembra una meccanica. Ma cerchiamo di fare un confronto con il dipinto di Leonardo da Vinci “L’ultima cena”.

In questo contesto, analizziamo solo un aspetto correlante alla foto di Fabris e cioè il dato di fatto che nel dipinto notiamo delle personalità che non hanno un volto rivolto al Cristo. Pur se non si relazionano direttamente con lui, tutti sono collegati a un’unica spiritualità, la stessa che non si nota nella foto del fotografo di Chicago. Nel dipinto il Cristo è una figura che costituisce un ideale spirituale di cui l’essere umano fa un principio di vita, laddove i colori e i volti raffigurano il legame di affetti ignoti di un possibile male. Questa assenza di male è presente comunque nella foto di Fabris con la differenza che qui la distanza simbolizza l’indifferenza umana. Il lavoro del fotografo non si ferma a questa opera, ma continua anche un’altra reinterpretazione, ossia la “Creazione di Adamo” di Michelangelo.

creationCome nel primo caso non andiamo a ricostruire in questo una recezione dell’opera di Michelangelo, bensì a tracciare un filo comune che ci possa far comprendere la differenza e il legame. Nel dipinto di Michelangelo notiamo un giovane che cerca di afferrare la mano del tempo e che ne sfiora la mano. Nella foto di Fabris invece al mio avviso non si raffigura solo il tempo ma anche qualcosa di più. Qui il tempo non sta con i piedi per terra, né tanto meno sdraiato come nel dipinto, bensì seduto su un tavolo e con i piedi appoggiati su un macchinario. Sembra che egli non simbolizzi un tempo ma una figura che dovrebbe dare aiuto al giovane, che però non ne pare convinta – simbolizzato dal fatto che non ha i piedi per terra. Il giovane nella foto non è un soggetto che si rapporta con il tempo, bensì con un maestro forse (un po’ freddo) a cui chiede aiuto. Qui il tempo sembra un uomo che vuole apparire buono. Punta molto sull’immagine. Il giovane a differenza di quello del dipinto, piuttosto che stare steso per via del lavoro, è un soggetto che sta per terra e che chiede una mano per rialzarsi. La chiave sembra raffigurare un oggetto richiesto dal giovane, affinché questo possa utilizzarla per uscire dalla sua sofferenza.
Questa è una personale interpretazione dell’opera di Fabris, il quale, al di là di ogni cosa, sembra testimoniare il trionfo dei futuristi nel lodare l’amore per la meccanica. Fabris forse a modo suo ci fa comprendere che abbiamo perso qualcosa di importante nel nostro quotidiano (la spiritualità), pur se il tempo passa portandoci ricordi di quello che l’uomo è sempre stato. È come se il fotografo ci voglia far notare che il tempo è una ruota che gira e nel tempo ci sono mutamenti. Un lavoro questo da cui possiamo comprendere forse ciò che ci manca o che abbiamo accantonato.

Giuseppe Sanfilippo

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