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“Tutti i padri che non vorrei essere”: l’angosciosa destrutturazione del ruolo paterno

Data:

Dal 17 al 22 dicembre 2018 allo Studio Melato del Piccolo Teatro di Milano

L’ultimo spettacolo di Mario Perrotta nasce ancora una volta dal suo consapevole intreccio tra vita personale ed espressione artistica. Nella sua interpretazione dell’Odissea, aveva scelto di impersonare non Ulisse ma il figlio Telemaco secondo una angolatura originale: protagonista attivo e critico della propria vita e non soggetto passivo delle scelte paterne. Per gli imperscrutabili incroci della vita, di lì a poco il padre di Perrotta morirà “troppo rapidamente”, senza lasciare il tempo utile a chiarimenti e spiegazioni.

La nuova avventura di fresco padre di un bimbo di cinque anni lo spinge ora in direzione di una trilogia della famiglia millenial. Si inizia con il ruolo del padre, in drammatica, radicale e sofferta trasformazione.

“Padre è una parola che riempie il mio quotidiano di nuove sfide e preoccupazioni” commenta Perrotta nelle note di regia. “Ho bisogno di ragionarci attraverso gli strumenti che riconosco miei per inchiodare al muro i padri sbagliati che vorrei evitare di essere”.

Da questa urgenza personale e artistica nasce dunque il monologo In nome del padre, rappresentato dal 17 al 22 dicembre 2018 allo Studio Melato del Piccolo Teatro di Milano.

La pièce è frutto della determinante consulenza alla drammaturgia e del supporto analitico di Massimo Recalcati, che ha messo a disposizione una importante casistica degli atteggiamenti con cui gli uomini contemporanei affrontano il sempre più difficile ruolo di padre.

Una collaborazione che è scaturita da una intesa di pelle tra le due persone, ma anche dalla grande esperienza di Recalcati relativamente ai temi della relazione. Senza dimenticare, poi, la profonda assonanza tra teatro e psicanalisi, che poggiano entrambe sul potere fondamentale della Parola.

In una scenografia estremamente minimalista, Mario Perrotta da solo impersona con minimi cambiamenti d’abito, tre padri, diversissimi tra loro per cultura, dialetto, condizione lavorativa.

Tre uomini residenti nel medesimo condominio, interpretati da una sola persona, a significare la condivisione, pure in situazioni estremamente diverse, del medesimo angoscioso senso di inadeguatezza che nasce dalla terribile mancanza di cuore.

Un giornalista siciliano, colto e “dialogante”, che inutilmente cerca di riempire il silenzio e la chiusura del figlio Alessandro con prolisse e intellettualistiche argomentazioni che celano sottili tentativi manipolatori. Un benestante napoletano alla ansiosa e vana rincorsa di condivisioni giovanilistiche con la figlia Giada, barricata dietro enormi cuffie musicali. Un operaio veneto, di umile condizione, schiacciato dalla nostalgia di un ruolo definito con precisione, come quello di capo officina nel suo lavoro e intristito per aver abbandonato la propria passione giovanile per la chitarra. Anche questo figlio oppone rifiuti continui, con la scusa dello studio, eretto ad arma nei confronti di un padre non colto.

Il silenzio è quindi di fatto un ulteriore, ingombrante personaggio. Urla quello dei figli, per quasi tutta la pièce. Sta sullo sfondo, apparentemente senza ruolo, quello delle mogli/madri. Evoca la mancanza di risposte semplici ed evidenti quello dello psicanalista cui si rivolge l’operaio.

La scenografia è minimalista ed essenziale: tre semplici figure di legno argentato con teste in filo di ferro che, usando i modelli di mitologiche classiche, evocano tre paterni stati d’animo. Su di esse di volta in volta Perrotta ripone / indossa l’indumento che caratterizza ciascun padre.
Il discobolo è l’ironico ricordo della ruolo del padre possente ed eroico. Il pensatore di Rodin esprime il ripiegamento preoccupato su se stessi. Il guerriero Galata morente in battaglia, infine, racconta la sconfitta della riproposizione del Padre Normativo e Autoritario.
Nel drammatico smarrimento identitario è la persona più semplice (un caso?), l’operaio veneto, che ha l’umiltà di accettare supporto e ridiscutere la propria identità. (Addirittura chiedendo esplicitamente aiuto al figlio, che rivendica giustamente la SUA esigenza di chiedere di essere ascoltato e aiutato). Tramite i suggerimenti di uno specialista imbocca con faticosa incertezza un nuovo sentiero di comunicazione, di intesa con il figlio attraverso la nuova comunanza nella musica.

E’ dunque infine un passo indietro obbligato quello dei padri, che attraverso lo smarrimento ammutolito della propria impotenza, riconoscono nuove parti di se stessi. E, abbandonate le richieste insistenti che generano automaticamente rifiuti oppositivi, lasciano finalmente ai figli la libertà di esprimersi, di vivere.

Per più di un’ora solo in scena, Mario Perrotta dà vita e corpo a tre angosce differenti in modo coinvolgente e partecipato.

Guido Buttarelli

In nome del padre
uno spettacolo di Mario Perrotta
consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
collaborazione alla regia Paola Roscioli
aiuto regia Donatella Allegro
costumi Sabrina Beretta
musiche Beppe Bonomo, Mario Perrotta
allestimento tecnico Emanuele Roma, Giacomo Gibertoni
progetto grafico Fabio Gamberini
organizzazione Permàr
in collaborazione con DUEL
produzione Teatro Stabile di Bolzano

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