“La teatralità di Dante  secondo  Franco Ricordi”. Di Enrico Bernard

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Non ho ancora letto il poderoso e affascinante La filosofia della Commedia di Dante di Franco Ricordi brillantemente presentato a Roma da Pier Ferdinando Casini, Filippo La Porta e Giuseppe Manfridi con splendide letture dell’attrice Tiziana Bagatella e dello stesso autore cimentatosi in una travolgente e febbricitante interpretazione del canto di Ulisse del poema dantesco.

Un’affermazione di Franco Ricordi  – non so se dettata dalla brevità dell’intervento orale nel corso dell’evento  o se invece inserita compiutamente nel testo – mi ha suscitato però qualche perplessità. Premetto che avrei volentieri chiesto lumi e aperto un dibattito se ce ne fosse stata l’occasione, senonché la serata si è conclusa senza la possibilità di interventi dal pubblico. Esprimo dunque in queste poche righe le mie obiezioni nella speranza di rendere all’autore la possibilità di una risposta esauriente.

Secondo Franco Ricordi (ripeto però spero si tratti di una battuta estemporanea e non di una considerazione presente nella sua ricerca) sarebbe, dunque,  il filosofo tedesco Schelling il primo a notare e sottolineare la teatralità della Divina Commedia. La questione non meriterebbe neppure di essere discussa se non fosse per un problema di ovvietà  che va  perfino contro il senso comune. Va da sé che già il titolo della Commedia  fa saltare agli occhi il tema della teatralità del poema,  su cui peraltro basterebbe una ricerca online con le parole chiave per scaricare una quantità di pagine ed indicazioni. D’altronde poco importa se sul termine commedia  del titolo dantesco ci sono svariate ipotesi, alcune delle quali miranti ad allontanare dall’origine teatrale. Ci si può allontanare quanto si vuole, ma poi si ricade in essa, indipendentemente dal genere di interpretazione linguistica. Le parole sono pietre, sostiene Nanni Moretti, è in questo caso commedia  è una pietra  inamovibile delle fondamenta teatrali dell’opera di Dante.

Schelling, il filosofo tedesco del primo ‘800,  sarebbe dunque, secondo Ricordi, colui che avrebbe intuito per primo la teatralità di Dante? L’affermazione alquanto fuorviante non meriterebbe – insisto –   risalto se non ci fosse il rischio di cancellare una buona fetta di memoria storica e critica della nostra letteratura.   Pazienza se trattasi di un’infelice boutade, ma da correggere subito prima che si allarghi a macchia d’olio costituendosi come assunto scientifico. La domanda sarebbe allora d’obbligo:  sono stati tutti per secoli così ottusi e ciechi da non accorgersene ben prima del filosofo del romanticismo tedesco? In realtà nel sostenere questa tesi  Ricordi dimentica prima Petrarca e poi Machiavelli.

Nella premessa del Secretum  Petrarca rivolge infatti un appunto preciso a Dante a proposito della teatralità:

«Ed io, acciò che, come dice Tullio, non si interponga troppo spesso dissi e disse, e acciò che la cosa paia davanti agli occhi e rappresentata da uomini presenti, le sentenze dell’egregio collocutore e mie non ho separato con altro circuito di parole, ma con la propria descrizione de’ propri nomi: e questo modo mio di scrivere io l’ho imparato dal mio Cicerone: e lui prima da Platone l’aveva imparato.» 

Machiavelli, due secoli dopo, nel Discorso o dialogo sopra la nostra lingua ribadisce fin dal titolo (Dialogo)  il concetto petrarchesco della struttura teatrale di Dante che viene citato per nome dal suo concittadino (ne tratta anche Luigi Blasucci in  La letteratura italiana, Milano, Mondadori, vol. 6, 2005, pag. 76):

«Ma perché io voglio parlare un poco con Dante, per fuggire “egli disse” ed “io risposi”, noterò gl’interlocutori davanti.»

In realtà Dante si era impegnato nella ricerca di una discendenza più nobile del poema: il teatro cominciava ad andargli stretto e lo ha in qualche modo “nascosto” nella struttura della Commedia. Di qui i rilievi di Petrarca e Machiavelli i quali ben notano che il capolavoro dantesco si fonda su un impianto teatrale e linguistico, come sostenuto da un’ampia bibliografia che non ho qui modo di citare integralmente,  che l’Alighieri trova, come afferma Machiavelli, già pronto per l’uso – cioè parlato per strada (grazie al teatro del drmma liturgico, delle laudi e dai comici, giullari) e non verseggiato nella sonettistica cortigiana dei “notari” (Giacomo da Lentini, Cielo d’Alcamo ecc.) stilnovisti.

Va da sé quindi che la teatralità di Dante non sia un tema nuovo “scoperto” dal filosofo tedesco Schelling, ma  già ampiamente dibattuto nei secoli nella cultura italiana.

Se poi vogliamo parlare del versante germanico non è certo Schelling a  intuire la  teatralità della Divina commedia, bensì Ludwig Tieck che fa di Dante appunto un personaggio  teatrale del suo Prinz Zerbin (il principe Zerbino ovvero una continuazione del Gatto con gli stivali)  del 1797. Ho tradotto l’opera (prima e unica traduzione in italiano la mia, editata da E&A  nel 1987) di Tiek.

Profetiche le parole che Tieck fa dire a Dante:

DANTE

                                    Chi sei tu, vuota nullità,

                                    che osi parlar con tracotanza?

                                    Non sai niente dell’opera mia?

                                    Provieni dai secoli bui? Fosti

                                    scacciato da religione e poesia?

 

NESTORE    Non si scaldi tanto vecchio mio. A dire il vero, non ho mai letto nulla di suo.

 

DANTE

                                    E hai il coraggio di parlar dell’opera mia!

                                    La Divina Commedia sarebbe fanfaluca!

                                    Una volgare parola da barbaro la tua

                                    che mal s’addice ad una lingua devota…

 

NESTORE    Stia buono le dico, e cerchiamo di discutere seriamente. Lei un tempo è stato veramente un poeta?

 

DANTE    Ariosto! Petrarca! Correte!

 

NESTORE  Suvvia, da allora le cose sono radicalmente cambiate: un tempo, un tempo sì… Ma ora lei è diventato un mattone, una barba.

Lo spiritoso dialogo e dissacrante tra l’imborghesito Gottlieb, Re da quattro soldi di uno statarello germanico, e il Sommo Poeta continua per alcune pagine in cui Dante si rende conto di essere passato dal Parnaso ad una birreria.

Fatto sta però, in conclusione,  che Schelling – nato nel 1775 –  semmai giunga alla teatralità di Dante dopo Tieck (che è anche il traduttore di Dante oltre che di Cervantes in tedesco),  e probabilmente grazie a lui dato che Tieck è il nume del movimento romantico considerato dagli Schlegel un “anti-Goethe” :  non  è assolutamente il primo a parlarne, ci mancherebbe, neppure in lingua germanica.

Resto in attesa di un chiarimento  da Franco Ricordi. Ma ricordo che su questo argomento ho pubblicato alcuni saggi che metto qui in bibliografia per chi fosse interessato:

L’italiano ha mille anni: Spunti drammatici sull’origine della lingua e della letteratura italiane in occasione della svolta millenaria del nostro idioma

di Enrico Bernard

First Published September 10, 2014

Abstract

La lingua italiana è nata circa un millennio fa dalla trasformazione della liturgia drammatica in dramma liturgico. Attori di questo processo sono stati i “comici” che hanno sviluppato il dramma per la comprensione liturgica e per intrattenere il pubblico su temi religiosi conosciuti. Si è innescato così un processo abbastanza rapido di delatinizzazione e “involgarimento” delle sacre rappresentazioni che, spostandosi dall’altare alle piazze, hanno preso la forma meno solenne di laudi e misteri buffi. Questo processo è stato però messo in ombra dal tentativo – che ha origini lontane, addirittura in Dante – di nobilitare e idealizzare la genesi dell’italiano distinguendo il volgare dal “dolce stil novo”. La dicotomia ha scatenato discussioni secolari sul dialetto, in particolare sul fiorentino, che per Dante rappresenta quell’idioma “illustre, regale, curiale, cardinale” che si differenzia dal volgare come lingua d’élite, letteraria e burocratica. Questa interpretazione, contrastata da Petrarca e Machiavelli, finì per eclissare l’origine drammatica, teatrale, dell’italiano. Ciò ha comportato un’interpretazione puramente letteraria e “fiorentinocentrica” della nostra storia linguistica e la “miseria” del teatro italiano sempre considerato, secondo una linea che va da Dante a Croce, come uno strumento troppo “volgare” e rozzo per sublimarsi in letteratura.

https://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0014585814542583

 

 

http://www.rose.uzh.ch/doktorat/romanistik/ibidem/wp-content/uploads/sites/4/2015/10/ibid_2013_12_corretto.pdf

 

https://www.academia.edu/12218225/Dante_e_le_due_letterature_quella_dei_ricchi_e_quella_dei_poveri

 

https://www.academia.edu/14779844/Heidegger_e_Petrarca_un_confronto_testuale

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