L’ULTIMO DESIDERIO di Pietro Favari. Settima puntata

Data:

A seguire la settima puntata del romanzo di Pietro Favari

SETTIMA PUNTATA

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Voglio uccidere Rosalynde Pinkpowder.

Chi sono io e perché voglio ucciderla?

Perché dalla terza persona siamo passati alla prima, al “io narrante”, e dal tondo al corsivo?

Che cazzo di domande! Meritano un cazzo di risposte. Così capirete perché la voglio uccidere.

Fanculo!

Cominciamo dalla seconda. Chi scrive questo libro ha pensato che così venisse sottolineato che il romanzo, questo, è cambiato. Pensa che cazzata!

La prima domanda invece la merita una risposta. Io sono quello stronzo che scrive i romanzi di Rosalynde! Sono il suo “negro”. Oppure lo “scrittore fantasma” come mi definisce lei perché è più politicamente corretto. Pensa che stronzata! Voglio ucciderla per diventare uno scrittore, bianco. Pensa che razza di coglione!

E perché lo sono e perché scrivo le parolacce? Cominciamo ancora dalla seconda.

Perché mi sono rotto i testicoli a furia di scrivere quelle vomitevoli cazzate di romanzi rosa che mi propina quella bagascia della mia datrice di lavoro. Vorrei vedere voi. Un po’ di sollievo!

Certo. Faccio il “ghost writer”. Mi paga. Poco, ma mi paga. Una percentuale sui ricavati di quelle merde di libri che vende ai suoi cornuti lettori. Non vi dico quanto perché mi prendereste per il culo.

Ma la fica me la dà, Rosalynde? Si è fatta fottere da me? Nei suoi stronzi romanzi – anzi miei – qualche volte accade. Magari tra lenzuola di seta, con i due figli di puttana protagonisti celati da candide tende ricamate per proteggerne l’intimità. E magari lei si fa sbattere dal suo amore. Nel romanzo si dice: “Lui l’abbracciò delicatamente e con una carezza girò il morbido corpo di lei per prenderne possesso in maniera inaspettata…”.

Un cazzo di gentiluomo non dovrebbe farlo sapere se ha scopato. Ma io non lo sono, un gentiluomo, forse ne avrete avuto il sospetto, e ve lo dico.

Sì. Me la sono scopata anch’io! Da dietro. Proprio come l’eroina del romanzo che allora stavo scrivendo.

Non male. Una porca soddisfazione. L’avevo fatta bere, a cena. Dopo lei si è degnata di accogliermi a casa sua, comprata con i proventi di quei luridi romanzetti scritti da me, e io ne ho finalmente approfittato! Gliel’ho infilato in bocca e quando mi sono sentito il cazzo ben duro “ho girato il morbido corpo di lei per prenderne possesso in maniera inaspettata…”.

Mica tanto inaspettata. Urlava a squarciagola come se non avesse atteso altro! Ora perfino lei si è stancata del rosa e vorrebbe passare al giallo. Al romanzo giallo.

Me l’ha commissionato ed io ho deciso che la vittima sarà proprio lei. Rosalynde.

Cosa ci vuole per scrivere un fottuto giallo?

Dovevo rompermi i coglioni per documentarmi. Una rottura di palle che non vi dico. Alla fine però ho scovato il saggio di un cervellone bulgaro, un certo Tzvetan Todorov: Tipologia del romanzo poliziesco che mi aprì la mente. Roba interessante, eccitante, tanto da farmelo venire duro. Il bulgaro ha guardato fin dentro il buco del culo del giallo e ha capito che i polizieschi inglesi – lui li chiama”romanzi enigma” – sono due storie, due come le chiappe.

Una è “invisibile”, ed è quella del delitto, che viene raccontato alla fine. L’altra è quella “visibile”, cioè quella dell’indagine, lenta e sanguinosa come l’orgasmo di una vergine. E’ il detective, poliziotto pubblico o privato, che alla fine risolve tutto e lo spiega anche al lettore più coglione.

Nel poliziesco stracotto americano, “hard boiled” – che Todorov chiama “nero” – il lettore non deve scoprire chi è l’assassino, magari lo si viene a sapere subito. Te lo fa diventare duro il racconto della vicenda, sempre violenta, e che rischia di fottere proprio quello che investiga e che in genere i cattivi pestano volentieri e gli fanno un culo grande come una mongolfiera.

Todorov, sempre lui, riassume in otto punti le venti regole proposte nel 1928 dallo scrittore americano S. S. Van Dine, un critico d’arte, pensate un po’. Magari frocio.

Prima cosa, un investigatore, un colpevole ed una vittima. E fin qui ci siamo.

Poi il colpevole non deve essere un criminale professionista, troppo facile scoprirlo, e non deve essere quello che investiga o il narratore. Altrimenti si arrabbia Agatha Christie che l’ha fatto in L’assassinio di Roger Ackroyd.

Terzo posto, non deve esserci amore nel giallo. Altrimenti diventa rosa,

Quarto, non deve essere il maggiordomo. E’ da barzelletta.

Niente fantasticherie cazzone. Tutto deve essere comprensibile, dice il quinto punto.

Anche le descrizioni e le analisi psicologiche sono malviste. Al sesto.

Il settimo punto impone di dare al lettore gli stessi indizi che ha l’investigatore. Così il lettore deve farsi il culo se vuole scoprire chi è l’assassino prima di arrivare alle ultime pagine del libro.

Ottavo. Niente situazioni o soluzioni cazzone. Van Dine ne elenca una decina.

E per concludere, qualcosa che ve lo farà venire duro. Come la coda di un canguro.

Nella narrazione, soprattutto di un giallo, la prima parte deve essere la “protasis”, ovvero l’esposizione e l’avvio degli elementi del racconto.

La seconda è la “epitasis”: la formazione, l’articolazione e l’indagine dei conflitti tra i personaggi.

La terza è la “catastrophe”, cioè la risoluzione dei conflitti. In senso positivo o negativo.

Negativo se si concluderà con la morte di Rosalynde. E il romanzo chi lo scrive? Io.

Oppure Rosalynde?

29

C’è un viavai di gente davanti all’ingresso del laboratorio analisi. Marco esce guardando i risultati degli esami effettuati. Annuisce sorridendo. E’ felice. Si allontana dal posto.

Marion disfa il divano letto. Rimette tutto in ordine, poi si avvia verso la camera di Marco. Si guarda intorno. Inizia a frugare tra le cose di Marco. Guarda nei cassetti e nel guardaroba. Nell’armadio scopre un fucile da caccia nascosto dietro agli impermeabili. Il suo volto svela preoccupazione.

Marco cammina lungo il marciapiede con aria felice. Raggiunge un negozio di telefonia. Guarda un attimo gli apparecchi in vetrina, poi entra.

Osserva alcuni telefonini in esposizione sotto lo sguardo della commessa. Indica quello meno costoso.

La commessa gli si rivolge con cortesia.

<<Signore, è sicuro?… Guardi che quello costa poco perché dura anche poco>>.

<<Va bene… Deve durare poco>>.

La ragazza sorride. Marco paga e prende il cellulare che gli viene consegnato. Esce dal negozio e torna a casa. Dove apre una busta che contiene radiografie e analisi mediche. Le tira fuori e le mostra a Marion sdraiata sul divano.

<<Hai una salute di ferro… Avessi io, il tuo cuore… Sai qual è il tuo gruppo sanguigno?>>.

<<No>>.

<<AB positivo… Ecco, il tuo è razzista. Puoi ricevere sangue da tutti ma puoi donarlo solo ad individui del tuo stesso gruppo. Io l’ho visto il razzismo più violento e feroce. Proprio in Africa>>.

Marco guarda fisso davanti a sé, come se stesse rivedendo qualcosa del suo passato.

30

<<Ho lavorato nel tuo continente quando ero più giovane. In uno Stato reso libero e ricco nell’Ottocento dai bravi americani di buon cuore e buoni sentimenti che decisero di liberare alcuni schiavi neri per riportarli a vivere in Africa dove erano stati catturati. Per rendere abitabile il nuovo paese dovettero in parte disboscarlo e dovettero anche sterminare qualche tribù locale che non voleva la concorrenza di antichi fratelli ritornati a casa. Poco male. Le intenzioni erano buone>>.

<<E tu che facevi in quel paese?>>

<<Facevo il buon negro per i ricchi neri cattivi. Prendevo parte anche ai loro divertimenti…>>.

<<Per esempio?>>

<<A volte partecipavo ai loro safari metropolitani. Le prede non erano bestie feroci ma uomini>>.

<<Uomini?>>.

<<Sì. Neri poveri, immigrati clandestinamente dai poveri paesi vicini a quello ricco. Quando i ricchi si annoiavano, per divertirsi sparavano ai poveri. Vinceva chi ne faceva fuori di più>>.

<<E c’eri anche tu?>>.

<<Mi invitavano e dovevo andare se volevo restare il loro negro bianco obbediente e servizievole>>.

Marion rimane colpita dal racconto di Marco.

<<Hai partecipato spesso a questi “safari”?>>.

<<Qualche volta ho dovuto farlo, se volevo lavorare per loro. I ricchi… Poi tornavo a casa e vomitavo la costosa cena che avevo mangiato quella sera. Dopo, tutto era finito>>.

<<Perché me lo racconti? Lo fai per spaventarmi?!>>.

<<Ma no, è tanto per far due chiacchiere. E poi perché ti dovresti spaventare? Noi europei siamo più civili. Tranne qualche fanatico, deprechiamo il razzismo, cerchiamo di essere politicamente corretti. Ce l’hanno insegnato gli americani, che a queste cose ci tengono, giustamente. E’ molto più civile se la televisione ci dice che un poliziotto bianco ha sparato nella schiena di un afroamericano piuttosto che di un nero. Qui da noi non c’è il rischio che tu finisca a fare da selvaggina. Sei fuggita dall’inferno del tuo paese e ora ti aspetti di aver finalmente raggiunto il paradiso. Da noi potrai trovare un lavoro. Se ami la campagna, potrai raccogliere pomodori per dodici ore al giorno e dieci euro in nero. Se preferisci la vita di città potrai vendere false Vuitton, oppure spacciare droga.

<<Oppure farti pagare per accogliere nella tua piccola micina nera qualche pallido cazzo europeo!>>.

Afferra di sorpresa Marion in mezzo alle gambe e le strappa la maglietta.

31

Carlo cammina in Via Garibaldi. Scatta qualche foto con il suo cellulare.

Entra nell’atrio di uno dei palazzi. Sale le scale. Ammira l’architettura, scatta altre foto.

Suona alla porta di un ufficio, Global Investigation.

Gli aprono. Entra nell’ufficio.

Carlo è nell’ufficio di Marta, sua ex moglie, una bella donna sulla cinquantina, vestita elegante e molto sicura di sé, che gli mostra le stanze dotate di apparecchiature sofisticate e occupate da alcuni collaboratori.

<<Allora finalmente sei venuto a trovarmi!… Che te ne pare del mio ufficio?>>.

<<Tutto moderno, complimenti, ma io ammiro soprattutto l’antico: Via Garibaldi, o meglio la Via Aurea genovese, con i palazzi ritratti da Rubens. Mi emoziono ogni volta che ci vengo…>>.

Carlo e Marta entrano e si siedono nello studio di lei.

<<Questo non è merito mio. L’ufficio è sempre stato di proprietà della mia famiglia>>.

<<Certo con il mio non posso farti concorrenza…>>.

<<Ma perché non ti decidi a chiuderlo e vieni a lavorare con me? Lo sai che ti stimo… E poi è stato proprio per merito tuo se sono diventata una brava investigatrice. Ho iniziato quando eravamo ancora sposati. Ho imparato a pedinare quando ti seguivo di nascosto per scoprire con chi mi tradivi. Sei stato tu il mio primo caso di adulterio!

Adesso di che ti occupi?>>.

<<Proprio di questo volevo parlarti. Devo trovare una minorenne scomparsa.

Questa>>.

Le mostra la foto di Marion.

Marta la osserva.

<<Graziosa… Sarà già nel giro della prostituzione… Hai provato nella zona del porto?>>.

<<Sì, ma senza risultati…>>.

<<Chi ti ha dato questo incarico?>>.

<<Quel mio amico, Paolo>>.

<<Allora è tutto gratis, per te… Neanche cinquanta dollari al giorno più le spese, come il tuo Marlowe?>>.

<<No>>.

<<Non guarirai mai… Vieni da me. Ho giusto una persona da trovare in fretta, l’amministratore delegato di una grossa azienda. Anche lui è sparito…>>.

<<Scommetto con i soldi della azienda… Bravo! Ha fatto bene anche lui!>>.

32

In casa di Marco, Marion, a seno nudo, minacciosa, imbraccia un fucile, puntato su di lui, un po’ spaventato.

<<Abbassa quel fucile…>>.

<<E’ questo il fucile che usavi nei tuoi safari in Africa? L’ho trovato in fondo al tuo armadio, nascosto dietro una sahariana e un paio di anfibi.

L’angolo dei tuoi ricordi africani, immagino>>.

<<Ti sei permessa di frugare tra le mie cose… Te lo dico per l’ultima volta: abbassa quel fucile!>>.

<<Hai paura?>>.

<<Figurati! Il fucile è scarico… Le munizioni le tengo in cassaforte.

Dammi il fucile…>>.

<<Lo so. Bang bang…>>.

Finge di sparare.

<<Hai ucciso molti uomini?>>.

<<Mi pareva di averti detto che non voglio domande>>.

<<Cosa si prova ad uccidere un uomo?

O una donna?>>.

<<Dipende dall’uomo che si uccide. Non ho mai ucciso donne. E poi la morte fa parte della vita>>.

<<E tu hai paura di morire?>>.

<<Sì, da quando ho perso la mia immortalità. E’ stata mia madre a condannarmi a morte>>.

<<Tua madre?>>.

<<Sì. Ero un bambino, avrò avuto tre o quattro anni. Fu lei a dirmi che prima o poi sarei morto. Come il babbo>>.

<<Io l’ho sempre saputo cos’è la morte>> dice Marion.

<<Vedevo la gente che si uccideva per le strade, in mezzo alla polvere… E i corpi restavano lì, a marcire>>.

Marco strappa il fucile dalle mani di Marion e glielo punta sulle parti intime.

<<E tu, hai avuto paura di morire?>>.

<<Tante volte. Tutti i giorni. L’ho anche sperato… Mentre venivo violentata in carcere in Libia>>.

Marco la ignora. Ricorda.

<<E’ stata proprio mia madre la prima persona che ho visto morire davanti a me… Avevo vent’anni. La guardavo ammalata, sdraiata a letto.

Tesoro, mi porti la medicina?” mi chiese.

Sono uscito di corsa dalla camera mentre lei sembrava agonizzante. Aveva difficoltà a respirare. Annaspava. Sono rientrato. L’ho guardata per un attimo. Poi sotto il suo sguardo, ho svuotato il contenuto della boccetta con la medicina in un vaso di fiori posto sul comodino. Mia madre vide il mio gesto ed è morta con lo sguardo fisso sulla boccetta svuotata. Dopo, dissi a tutti che non avevo fatto in tempo a darle le gocce>>.

Marco resta in silenzio per qualche secondo.

<<Sono stato io a chiuderle gli occhi. L’avevo visto fare in un film>>.

33

Diego affronta i genitori. Non riesce a trattenere l’ira.

Lo scontro, nel salotto di Rosalynde, evoca i duelli finali dei western spaghetti. Lenti, lentissimi, alternando primi e primissimi piani.

<<I genitori non si possono scegliere, è vero, ma perché mi siete capitati proprio voi? Un padre che fa le casse da morto. E per non farsi notare le pubblicizza in televisione.

<<Una madre che mi avevate fatto credere deceduta durante il parto, con miei relativi sensi di colpa perché pensavo di averla uccisa nascendo. E invece è viva. E per non farsi notare scrive ridicoli romanzetti rosa. Ne ho anche letto uno, per documentarmi. Roba da non credere>>.

Diego si versa un whisky scozzese, dose doppia e non ne offre ai genitori, che restano in silenzio e senza bicchiere.

Fra loro è in corso una sorta di duello. A tre. Genere Sergio Leone. Anche se solo verbale. Un triello.

La pistola idealmente c’è l’ha in mano Diego. Si versa un altro whisky e si avvicina al caminetto per gettarvi dentro uno dei romanzi di Rosalynde. Attizza il fuoco.

Compiaciuto.

<<Perché mi siete capitati proprio voi? Due genitori con lavori assurdi di cui mi vergogno. Perché mi avete costretto a non accettare di essere vostro figlio?>>.

Diego si mette a ridere. Una ilarità solleticata anche dall’alcol.

<<Perché proprio due pagliacci mi sono capitati? Piuttosto una professoressa e un impiegato di banca. Perfino una prostituta e un truffatore andavano meglio>>.

Diego accenna a un passo di danza e trascina con sé la madre.

<<Perché mi costringete a non essere vostro figlio, a non avere padre e madre? Non è giusto. E’ vigliacco>>.

Il ragazzo ha il singhiozzo, provocato dal whisky.

<<Perché mi avete fatto nascere? Ora non ho il coraggio per morire, per uccidermi…>>.

<<E magari per farti seppellire in uno dei più confortevoli modelli di cofano funebre della mia… della nostra azienda>>, interviene il padre.

La pistola idealmente ora ce l’ha Pierfrancesco che si alza dalla poltrona e si mette a passeggiare in salotto.

<<Troppo facile disprezzare un’attività che finora è servita a pagarti gli studi e tutti i viaggi che hai voluto!>>.

A questa battuta a Diego passa il singhiozzo. <<E ti pareva che adesso non venissero fuori dalle casse da morto anche i soldi! Troppo facile!>>.

Diego abbandona di colpo Rosalynde che aveva coinvolto, recalcitrante, in un ballo ritmato e coreografato dall’alcol e che cade a terra. Lei si rialza e interviene.

<<E’ da vigliacco disprezzare i soldi! Soprattutto quando come te non si è fatto nulla per guadagnarli! Io ho lasciato Pierfrancesco e mi sono data per morta per non finire idealmente sepolta in qualche cofano. Sicuramente in legno pregiato. I romanzi li ho scritti per sopravvivere alle casse. E non è stato facile>>.

Interviene Pierfrancesco. <<Tanto che hai dovuto pagare uno per farti aiutare nel tuo lavoro!>>.

Rosalynde reagisce con violenza. Si riempie un bicchiere di whisky, e aggiunge il ghiaccio. Per rovesciarlo addosso a l’ex marito.

<<Un’abitudine di famiglia, questa! Tu hai sfruttato un poveraccio di architetto, sottopagato, per farti disegnare quelle belle casse che spacci come opere tue! Sono sicura che anche l’idea della trasmissione non è roba inventata da te!>>.

<<Perfetto. Anche il successo in campo professionale non è merito vostro>> commenta Diego.

<<L’ultimo desiderio in origine era una piccola emittente specializzata in televendite di elettrodomestici che non comprava nessuno>> ribatte Pierfrancesco. <<L’ho comprata per pochi soldi e ho avuto l’idea geniale di esaudire le ultime volontà dei malati terminali. Un successo clamoroso! L’idea l’hanno copiata perfino un gruppo di televisivi olandesi!>>.

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