IL REALISMO ETICO DI SALVATORE QUASIMODO

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Autore  simbolo di una parola ermetica raccolta attorno al nucleo dell’esilio dell’io da un mondo che non riconosce e da cui non è riconosciuto, la poesia di Salvatore Quasimodo ha saputo trasformare l’ansia di separazione  in riflessione civile nell’urgenza  di ricostruzione morale seguita dalla guerra. La nostalgia del tempo mitico volta alla responsabilità della terra ferita ci racconta in fondo una medesima aderenza nella coscienza della solitudine della condizione umana. La dignità offesa come occasione d’apertura e riemersione nell’ammonimento a non più ricadere nello sradicamento e nella morte (“Nasco  al  tuo  lume  naufrago,/sera  d’acque  limpide.// Di  serene  foglie/ arde l’aria consolata.//  Sradicato  dai  vivi,/cuore provvisorio,/sono limite vano.   //  Il  tuo dono tremendo/ di  parole,  Signore,/  sconto assiduamente.// Destami  dai morti:/ognuno  ha  preso  la sua terra/e la sua donna.// Tu m’hai guardato dentro/nell’oscurità delle viscere:/ nessuno ha la mia  disperazione//  nel  suo cuore:// Sono un uomo solo,/  un solo inferno”). L’affondo in una natura, e un’ isola, la sua Sicilia. contemplate nel timbro di una arcaica felicità perduta va a caratterizzare la prima fase della sua scrittura: lo struggimento nella lontananza di un presente urbano e non più d’oro che si intreccia alla luce di un verso  sapientemente dosato nella dimensione intima e pura di uno spazio che muove per allusioni, per suggestioni nell’evocazione simbolica della propria frattura. La parola nella lezione degli amati classici riflessa nell’estraneazione e nello smarrimento che viene dalla sacralità del turbamento. Sarà poi la guerra piuttosto nella questione di un’umanità da risollevare dalle fondamenta a scuotere l’interrogazione dal tempo dell’interiorità a quello di una più aperta disposizione , da una natura liricizzata alle crepe delle città e dei cuori. “Rifare l’uomo”, quindi, è l’indirizzo di una scrittura che trova nell’impegno l’espressione di una parola condivisa. Il canto nella comune dolenza si fa così consapevolezza, e denuncia di una storia bloccata  nel suo desiderio di morte, nel suo non volersi libera (“Ma che volete pidocchi di Cristo?//Non accade nulla nel mondo e l’uomo/stringe ancora la pioggia nelle sue ali/ di corvo e grida amore dissonanza.// Per voi non manca sangue/ dall’eternità . Soltanto la pecora/ si torse al suo ritorno con la testa/ brulla e l’occhio di sale.// Ma non accade nulla. E già muschio/la cronaca ai muri della città/ d’un arcipelago lontano”). I pericoli di una modernità sul bordo di una perenne precarietà progressivamente al centro delle meditazioni saranno così spente solo dalla prematura scomparsa. L’istanza sociale, l’attenzione a una cronaca segnata da marginalità e cancellazione che si intreccino al tema della pietà e del dialogo, al richiamo ad un “realismo etico” che nell’opposizione al dolore, nel lascito di tutta una generazione, avvicini l’uomo all’uomo: questo, secondo il discorso al conferimento del Nobel, l’ultimo ultimo lascito “all’uomo che ascolta”.

Gian Piero Stefanoni

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