IL VERISMO NELLA SAGA FAMILIARE DEI POVERI MEZZALIRA AI GIARDINI DELLA FILARMONICA. LA SPIETATA MEGALOMANIA DEL POTERE AL FEMMINILE NEL MONOLOGO DI ELISABETTA I

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Continuando a seguire la rassegna “I Solisti del Teatro” curata dall’intraprendente manager Carmen Pignataro, che ogni  sera visiona con particolare attenzione sulla sua sedia isolata in  fondo al giardino davanti alla struttura riservata ai tecnici ed al regista lo spettacolo calendarizzato per quella data, abbiamo osservato due lavori di genere diverso che hanno suscitato in noi differenti sensazioni emotive e riflessioni critiche. C’è da dire che ha ricevuto maggior gradimento da parte nostra la tematica etica e socio – civile sviluppata nel terzo dramma di Agnese Fallongo che, in “I Mezzalira, panni sporchi fritti in casa”, ha completato la trilogia riservata agli ultimi, i diseredati della scala sociale, quelli che oggi non ce la fanno ad arrivare a fine mese ed è una fascia che si va allargando sempre più in quanto con l’aumento delle bollette della luce , del gas ed il rialzo dei prezzi dei generi alimentari è facile passare da una condizione di media borghesia a quella d’incipiente e progressiva crisi economica, come indicano i rilevamenti dell’ISTAT. Basti meditare su quel produttore caseario che da una quietanza di duecento euro circa s’è visto recapitare una fattura dell’energia di poco meno d’un milione o l’incremento di coloro che si recano ogni giorno alla Caritas per avere in nome della stessa “in Veritate”, secondo l’Enciclica omonima di Benedetto XVI o quella di San Giovanni Paolo II “Sollicitudo rei socialis”, il necessario per andare avanti, attendendosi, però, dallo Stato, il cui fine è il “Welfare” o bene comune, la solidarietà con la sussidiarietà. Quest’ultima creazione, in cui la commedia e la tragedia s’intrecciano, va a a completare la trilogia iniziata con “Letizia va alla guerra” e “ Fino alle stelle”. Siamo pertanto in ordine temporale in pieno Neorealismo, riprendendo la tematica del Verismo e la questione “Chiave” della roba caratteristica di Mazzarò di “Novelle Rusticane” o di “Mastro Don Gesualdo” secondo romanzo del “Ciclo dei Vinti” del borghese Giovanni Verga catanese, con al cent ro la figura di Giovanni Battista detto “Petrosino” che, come filo conduttore della pièce racconta tutta la sua esistenza  dall’adolescenza fino alla maturità, secondo il genere dell’affabulazione teatrale portato al successo da Gassman e Camerini  svelando  inappuntabilmente tutti i fatti che si svolgono sulla scena costruita in legno su due piani  : da una   parte la cucina regno della nonna saggia e bigotta “ donna Pitta” che ha  una figlia Crocifissa sposata con un lustrascarpe che vive a giornata, mentre lei va a cucire in casa delle dame rovinandosi le mani; hanno due figli Pasqualina e Giacinto con lei che ha cominciato a studiare dalle suore, mentre lui si diverte in maniera sbarazzina. Improvvisamente il padre muore per un infarto ed i Mezzalira, per simbolizzare la povertà, si ritrovano nel bisogno per cui Pasqualina viene ritirata dalla scuola per dare una mano in casa, mandando a studiare invece filologia classica “Petrosino” nel collegio dei Gesuiti. Naturalmente quando il fato s’accanisce e mancano risorse finanziarie o capacità creative per darsi un’alternativa la situazione peggiora e perciò si va al totale sfacelo o disastro : Pasqualina si fa mettere incinta dallo spasimante Antonio che sta sotto alla finestra di lei implorandola di farlo entrare nella stamberga, dove s’erano spostati  in periferia del nuovo abitato dal paese vecchio, stando la fanciulla al letto con il pancione ,finché la scaltra nonna Pitta capisce che qualcuno, per usare un’efficace metafora, ha messo il “Filone nel forno” prima del tempo ovvero del sacro matrimonio. Crocifissa si era piegata moralmente alle circostanze, non sapendo che altro fare per andare avanti, già allorché c’era ancora il marito andando a chiedere aiuto al massaro Cataldo, che a quel tempo erano i “Baroni” od antichi latifondisti romani, che aveva sotto di sé i contadini, che avevano rinunciato ai loro piccoli terreni costosi da gestire per lavorare al sicuro sotto padrone, i villani divenuti poi “Cafoni” con “Fontamara” di Silone nella Conca del Fucino, che gli assicuravano una ricca produzione agraria e campestre d’ogni ben di Dio. Logicamente ciò aveva indotto il ricatto etico a cui per un buon fine, ma lo scopo positivo non giustifica o sana cristianamente il Male, Crocifissa aveva dovuto sottostare in base al famoso adagio “Io do una cosa a te e tu ne dai una a me” per cui poi la ragazza avrebbe svelato a Giovanni Battista che non era suo fratello. D’altronde il medesimo “Petrosino” in un certo senso s’era inconsciamente vendicato, comportamento altrettanto sbagliato  nel frangente in cui padron Cataldo aveva sorpreso il fanciullo insieme con il padre a rubare un orcio d’olio e nella contesa il recipiente s’era spaccato uccidendo “don” Cataldo in quanto una scheggia di vetro gli aveva trapassato il collo da una parte all’altra. Dal prezioso liquido giallo scivoloso ed indispensabile in cucina nasce con una crasi il titolo dell’opera agrodolce, con la fusione del proverbio “ I panni sporchi si lavano in famiglia” e della ricetta culinaria della frittura, che nonna Pitta avendone, talora la possibilità d’utilizzare l’olio, faceva con lo zucchero od il sale a guisa dei gusti della famiglia. Il lavoro in un eclettico dialetto meridionale senza un luogo ed un tempo precisi procede a ritmo incalzante con la narrazione delle vicende del protagonista incarnato fuori campo dall’eccellente Adriano Evangelisti con la sua chiara eloquenza espressiva, che ci spiega  come a 18 anni ereditò la sostanziosa fortuna del padre naturale e poi nel corso della sua vita ebbe una profonda maturazione intima, tenendo per sé solo una parte sufficiente e mettendo il resto a disposizione della plebe per riscattarla dalla servitù e dallo sfruttamento quotidiano, come chiedevano i braccianti già in “Libertà” altra novella rustica di Verga in cui furono repressi dalle truppe di Nino Bixio al seguito di Garibaldi, come aveva fatto pure il riformista Lutero nella battaglia di Munster del 1525; nei tempi del XX secolo sarebbe stata la volta di Portella della Ginestra con la strage dei  contadini operata da Luciano Ligio con la sua banda. I personaggi principali della nonna e del padre sono stati interpretati da Tiziano Caputo, mentre quelli femminili l’ha sostenuti la stessa autrice e la regia psicologica dello scavo dialettico dei soggetti in causa è stata diretta dall’acribia di Raffaele Latagliata.  Lo spettacolo sarà presentato nella prossima stagione teatrale al teatro Manzoni in Prati, vicino alla RAI. Insomma  il trionfo della tradizione orale d’una memoria volontaria che si può rintracciare nei piccoli paesi  di montagna o dell’entroterra italiano, ma che adesso tocca sempre più da vicino led cinture metropolitane al punto che l’architetto e senatore a vita Renzo Piano ha detto che occorre darsi da fare per far decollare le periferie ed inserirle a pieno titolo nel tessuto urbano con le sue opportunità culturali. Proprio questa linea d’intento intellettuale sta seguendo il regista Filippo D’Alessio, che con Alessandro Benvenuti sta portando avanti il Festival di Teatro , Cinema e Musica  di Tor Bella Monaca per il riscatto del quartiere. Egli ha trovato pure il tempo per dirigere Maddalena Rizzi, che sta conducendo una sua battaglia per vedere le donne al potere, nei panni di Elisabetta I nella prima parte del Seicento sul trono d’Inghilterra e d’Irlanda , la cui zona meridionale cattolica sarebbe diventata indipendente solo nel 1922 rispetto a quella settentrionale unionista ed orangista, come ultima discendente dei Tudor e figlia di quella Anna Bolena che il re Enrico VIII aveva fatto decapitare, dopo averla sposata successivamente a Caterina d’Aragona, in quanto non gli aveva dato un erede maschio che avrebbe avuto naturalmente da Jane Seymour. La stessa Elisabetta non aveva avuto prole ed aveva respinto ogni richiesta di matrimonio a partire da quella dello Zar russo Ivan il Terribile giacché la Russia e la sua patria erano troppo lontane e quindi la domanda di Filippo II in quanto la stessa Inghilterra, la Spagna, l’Olanda e la Francia erano avversarie per il commercio marittimo, le colonie con il mercantilismo ed il dominio sugli Oceani. Ella era stata sedotta e posseduta a 15 anni dall’uomo, il cavaliere, più affascinante d’Inghilterra e poi aveva avuto tutta una serie d’amanti che aveva ripagato con titoli onorifici. Questo bilancio consuntivo lo fa in tarda età quando si considera ancora bella e volpe dominatrice del trono tanto da muovere a suo piacimento gli armigeri, gli scudieri , i paggi e gli spasimanti sul palcoscenico disegnato come una scacchiera dal regista, quasi a significare che la regina emblematicamente mangia le altre pedine, con il suo splendido abito regale avana e la corona regale in testa, incedendo sontuosamente come una vecchia “tigre” carnivora della giungla indiana, avendo eliminato anche la figlia della sorella maggiore di suo padre che voleva  il comando della nazione, che poi sarebbe stato preso dai discendenti della cattolica Maria Stuart, salvo la parentesi della Repubblica autoritaria di Lord O. Cromwell definito “Protettore” dei diritti del popolo e da cui sarebbe nata la Camera dei Comuni. Di contro  a siffatta insaziabile arroganza  e spregiudicata determinazione violenta del potere per il potere, non essendosi mai voluta coniugare per dedicarsi totalmente allo Stato, la straordinaria recitazione della Rizzi fa risaltare l’orgoglio del suo genere femminile, la libertà ed indipendenza irremovibile dei suoi giudizi, delle sue decisioni e delle sue determinazioni. Peccato che il valore storico ed esegetico storiograficamente dello spettacolo sia stato apprezzato da poca gente, a cui Giove Pluvio ha riservato una pioggerellina rispetto a quella rovesciatasi in Liguria, Toscana ed a Venezia, danneggiando perfino lo stupendo campanile di San Marco. Speriamo che le altre serate della rassegna vengano risparmiate dagli alluvioni : venerdì ci sarà “ Musa e Getta” su 16 personaggi femminili celebri letti da Arianna Ninchi e Silvia Siravo, mentre sabato toccherà a “Penis Project” sui problemi, l’ ansie e le inclinazioni di genere della fallocrazia.

Giancarlo Lungarini

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