GLI DEI ESISTONO, E SONO UMANI. Intervista a Julio Bocca

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Non ha bisogno certo di presentazioni, una carriera incredibile, l’erede di Baryshnikov, rimane tutt’ora senza un successore (non ce ne voglia Roberto Bolle). Argentino con chiare origini italiane, classe 1967, dopo aver vinto nel 1985 il prestigioso Concorso di Mosca, viene ingaggiato dall’American Ballet Theatre. Da qui, una carriera ineguagliabile nei ruoli più diversi, grandissima tecnica ma anche grandissima interpretazione: il suo sodalizio artistico con Alessandra Ferri, di pari qualità artistiche, dura vent’anni, facendo di loro i nuovi Nureyev-Fonteyn. A soli quarant’anni, nel 2007, si ritira, lasciando un mondo più triste e privo di un livello coreutico che ancora oggi non ha eguali. Saputo che per qualche settimana è maître ospite al Teatro alla Scala, lo incontriamo in un bel pomeriggio estivo, seduti ad un tavolino all’aperto. Cordiale, simpatico, gentilissimo, il prototipo del grande artista che non ha bisogno di strafare per farsi notare.

Julio, è un grande onore poterti incontrare. Sei già venuto l’anno scorso per Don Chisciotte, ora a distanza di pochi mesi sei nuovamente qui al Teatro alla Scala.

Sì, sono venuto l’anno scorso, poi ora, e spero di tornare la prossima stagione. Per me è stato come un ritrovare l’Italia. Non ci sono venuto per molto tempo, ero un po’ nervoso, perché sono cambiate molte cose, ma allo stesso tempo un piacere, perché ho sempre avuto un rapporto molto speciale con l’Italia, a partire da mio nonno, dalla mia famiglia; ci ho lavorato molto da quando ho iniziato la mia carriera, è dal 1986-87 che vengo qui. Per me è stato bellissimo avere questa possibilità: trasmettere tutto quello che ho imparato in tanti anni.

Da quando hai lasciato le scene, troppo presto, qui in Italia non si è saputo praticamente più nulla di te. Si sapeva della tua direzione del Ballet Nacional de Sobre, in Uruguay.

Quando mi sono ritirato, mi sono allontanato da tutto, volevo scollegarmi completamente dal mondo della danza per ritrovare me stesso, in altra forma, come una persona normale. E’ stato un cambio molto grande, avevo bisogno del mio spazio. Io sono sempre stato molto tranquillo, riservato, non sono un festaiolo, uno che esce tutte le sere, ma quando mi sono ritirato sono andato a vivere in Uruguay perché avevo bisogno di un posto più tranquillo. L’Uruguay conta tre milioni di persone, puoi uscire a passeggiare anche se la gente ti riconosce, ma in Argentina impossibile: quando mi sono ritirato, all’ultimo spettacolo c’erano trecentomila persone; bellissimo perché significa un affetto della gente speciale, ma chiaro che ero sempre inseguito, anche quando andavo al supermercato, quindi avevo finito per chiudermi in casa, e non è quello che uno desidera. In Uruguay invece quando vado al supermercato la gente mi saluta ma posso uscire tranquillamente. Lì mi è stata data la possibilità di dirigere la compagnia nazionale, dopo un anno e mezzo dove non avevo fatto assolutamente nulla. Nulla appunto per un anno; poi i successivi sei mesi ho iniziato a sentire qualcosa, sentivo che il mio corpo ne aveva bisogno, allora ho iniziato ad andare in compagnia, al Ballet de Uruguay, a fare lezione. Lì ho iniziato a sentire che avevo bisogno di trasmettere la fortuna che avevo avuto di lavorare con grandi coreografi, grandi compagnie, grandi maestri. Ho iniziato quindi a dare delle masterclasses, a fare i corsi estivi, e da qui è arrivata la possibilità di dirigere il Ballet de Uruguay. La compagnia aveva bisogno di un cambiamento, perché il pubblico era poco, si facevano venti spettacoli all’anno: era una compagnia nazionale, ma con solo venti danzatori. Non si facevano concorsi da anni, nessun giovane, lavoravano solo tre ore, insomma, un’altra mentalità. Mi ha dato la direzione il Presidente della Repubblica di allora, Pepe Mujica, un personaggio, uno che si è fatto dodici anni di carcere ai tempi della rivoluzione: io venivo da vent’anni di lavoro negli Stati Uniti, gli americani hanno un modo di lavorare completamente diverso, e lui disse di sì. Si ricordava quando suo padre lo portava al Teatro Colón di Buenos Aires a vedere balletti, opere, riteneva la cultura importante. Accettai, ma chiesi una programmazione ad almeno due anni, la possibilità di coprire i costi di un coreografo che venisse da fuori metà al suo arrivo e metà alla partenza non dopo sette mesi, di lavorare sette ore, il minimo per avere una compagnia di livello internazionale. E lui mi disse di sì. Rimasi sorpreso; ma così ho iniziato a lavorare. Contratti annuali; da venti a sessantacinque danzatori; da venti a settante-ottanta spettacoli all’anno; da cinque a quindici-ventimila spettatori a replica, tournées nazionali ed internazionali. E parlo dell’Uruguay: tre milioni di abitanti solamente, di cui uno a Montevideo: avere un tale pubblico è molto. Gente giovane, con meno di cinquant’anni, che veniva a vedere il balletto… Insomma, iniziai a riprendere con la danza, a fare quello che mi piaceva. Rimasi sette anni alla direzione: non era solo danza; essendo il teatro a livello nazionale, ha la sua storia. Nel 1971 ci fu un grave incendio e ci hanno messo da lì al 2009 per terminare i lavori di ricostruzione. Quando sono arrivato io il teatro in sé era finito, ma mancavano le sale prove, una parte di scenografie, i costumi… Mi sono occupato anche di questo. Avere persone per la sartoria; ho chiamato personale dal Teatro Colón che spiegasse come fare le strutture, come dipingere un fondale… Quindi molto lavoro. Ma l’ho amato moltissimo, amavo essere coinvolto in tutto questo! In sette anni abbiamo fatto Romeo e Giulietta e Manon di McMillan, Onegin di Cranko, Bayadère di Makarova, Vedova Allegra di Hynd, ed ancora Kylian, Forsythe, Tudor, Balanchine, creazioni nuove; Lago dei Cigni, Schiaccianoci, Giselle, Bella Addormentata, tutto! Parte delle scenografie è stata fatta direttamente in teatro. Abbiamo viaggiato in Oman, Thailandia, Messico, abbiamo aperto il Festival di Cannes in Francia, poi Spagna, tutta l’America Latina, insomma abbiamo girato tanto. Dopo sette anni ero stanchissimo, stavo più in ufficio, riunioni, i sindacati, quindi decisi di lasciare. Volevo poter stare di più in sala con i ballerini, allora iniziai a viaggiare: scuole, compagnie, dal 2018 ad oggi ho lavorato con English National Ballet, Opéra di Parigi, Bolshoij, Scala, Royal Danish Ballet, Royal Swedish Ballet, American Ballet, San Francisco Ballet, Australian Ballet… Lavoro facendo lezioni e riprendo e rimonto opere. Per sei settimane ho curato Don Chisciotte al Royal Danish, fatto lezioni alla Scuola dell’ Opéra di Parigi, ora avrò Bayadere a Tokyo, Giselle a Roma; Amsterdam, Australia per Don Chisciotte di Nureyev; l’anno prossimo Manon per il Royal Swedish, tutto così. Avrei dovuto andare al Bolshoij, ma ora non è il momento… Quando ci sono tornato, è stato un salto nel passato, perché lì è iniziato un po’ il tutto, dal concorso del 1985, poi come danzatore, ora come maestro. Già ho quasi tutto l’anno prossimo pieno e sto programmando il 2024 ed il 2025, vedremo.

E quando riposi? Sei sempre in giro!

Questo è un problema adesso! Durante la pandemia, per un anno e mezzo, nulla. Dopo è ripartito tutto insieme! Vivo ormai in Uruguay da quattordici anni, torno a casa per un paio di settimane in luglio e poi fra un lavoro e l’altro.

Quando poi hai deciso di ritirarti, avevi la tua compagnia, il Ballet Argentino. Cosa ne fu dopo?

Dopo vent’anni di Ballet Argentino, lo chiusi. Era difficile: la compagnia si manteneva principalmente perché danzavo io, e per l’indotto economico che ne derivava. Quando mi sono ritirato non c’è stato nessun danzatore argentino che volesse prendersi questa responsabilità: non è solo questione di danzare, quando hai una compagnia c’è tutto un lavoro dietro… Ho preferito chiudere. Ho fatto il mio ultimo tour con loro e poi basta. Questa parte della mia vita si è chiusa al massimo: è stato bellissimo.

Perché così giovane, però…

Non mi sentivo assolutamente giovane. Avevo subito undici interventi chirurgici, volevo ritirarmi danzando. Avevo quarant’anni, ma allora era completamente diverso: oggi il danzatore ha una vita più lunga. Ero un po’ matto: facevo spettacolo con l’American Ballet, lavoravo di notte, poi partivo per il Festival di Spoleto il giorno successivo con la mia compagnia; danzavo in Francia ed il giorno dopo a New York. Questo tipo di vita incide sul corpo, facevo più di duecento spettacoli all’anno; danzavo moltissimo, lo facevo per il pubblico, perché venivano a vedere me, ero sempre in scena. Alcuni grandi danzatori magari in una serata fanno una sola coreografia e basta, ma io volevo stare sul palcoscenico. Quando sono arrivato a quarant’anni, mi sono detto che volevo finire al massimo: l’ultimo spettacolo che ho fatto, a Buenos Aires, sono state due ore dove ho fatto Cigno Nero, Don Chisciotte, Corsaro, tanghi, folclore, jazz, tutto, con diverse partners: Ananiashvilij, Tamara Rojo, Eleonora (Cassano, ndr), C’erano Manuel Legris, José Carreno… Fino alla fine, così la gente si sarebbe ricordata di me chiedendosi perché avessi smesso, chiedendosi “Quando ritorna?” Piuttosto che guardandomi pensasse “Ma quando finirà?” Non c’erano poi le tecniche di oggi come osteopatia, Pilates… In Sud America non avevamo nemmeno il fisioterapista, il nutrizionista, niente. Altra cosa, l’attenzione al tipo di pavimento: ballavamo su qualsiasi superficie, era diverso. Adesso i ballerini hanno molte più possibilità, tutto è preparato per star bene, per quello durano di più; sono preparati per fare altre cose. Io per esempio mi sono sempre sentito un ballerino classico, ho fatto del contemporaneo ma non ero preparato per fare chissà cosa, non mi sentivo benissimo, non era il mio. Adesso un danzatore deve essere un bravo ballerino classico ed un bravo ballerino contemporaneo. Prima un ballerino classico vedeva uno contemporaneo e pensava che fosse tutto facile, che tutti lo potessero fare; poi quando si inizia davvero a provare, non è facile per niente! Come Alessandra (Ferri, ndr).

A proposito di Alessandra Ferri, a 59 anni è stupenda, ma come fa?

Beh, fa le sue lezioni tutti i giorni, ha sempre fatto qualcosa anche durante gli anni in cui si era ritirata; in più, ha un corpo privilegiato, non ha subito grandi interventi; Alessandra è l’artista per antonomasia. Vedendola adesso, si vede come estrae dai suoi partners la loro parte artistica, chiede molto, e loro crescono in maniera incredibile. E’ bellissimo vedere questo anche in scena.

Avete danzato insieme più di vent’anni: com’è vederla adesso danzare con altri che non siano te?

E’ comunque bello, ma con Ale abbiamo qualcosa di speciale che so che sarà sempre solo nostro. Non avrà questa comunicazione, questo comprendersi, questa sicurezza con altri, lo so. Capita una volta nella vita la magia di una partnership così: in generale succede poche volte succede ed a volte passano anni. Potrò sembrare egoista, ma credo che noi due abbiamo avuto questa fortuna e credo che anche il pubblico vedeva questo e riceveva quello che c’era fra noi. Ho danzato con Nina (Ananiashvilij, ndr) per dodici anni, poi Eleonora (Cassano, ndr), Cecilia (Figaredo, ndr), ma era totalmente diverso. Alessandra è qualcosa che non si può descrivere. Anche adesso, che viene a fare lezione, c’è qualcosa di più, di diverso.

Avete iniziato a danzare insieme all’America Ballet a New York.

Sì, ne La Sylphide. E lì non ci toccavamo nemmeno. Mi piaceva molto, ho anche passato un periodo in Danimarca per imparare lo stile Bournoville, mi affascina molto: rapidissimo ma allo stesso tempo con una purezza ed una qualità rare. Il balletto, se manca di questo, diventa contemporaneo o ginnastica: la base storica deve essere difesa e valorizzata. Dopo con lei ci fu Giselle, poi Romeo e Giulietta e Manon. Abbiamo lavorato con Baryshnikov, con Nureyev, era la quotidianità. Conobbi Nureyev a San Francisco, lui era in tournée con Il Re Ed Io, ed io stavo facendo una delle mie prime Giselle con l’American Ballet. Dopo una replica, non sapevo neanche che fosse fra il pubblico, sento bussare al mio camerino, apro, ed era lui! Era venuto a farmi i complimenti ed a dirmi che gli era piaciuta particolarmente la parte artistica, quando io non mi sentivo ancora artisticamente sicuro. Il giorno dopo venne a fare lezione con noi, si mise alla sbarra con noi. Ho avuto il privilegio di aver a che fare con questi grandi artisti, da lavorare con Maya Plisetskaja a conoscere Martha Graham, dividendo la quotidianità, ascoltando storie. A Cuba, con l Ballet Nacional, mi venne detto che Alicia Alonso voleva salutarmi: feci per andare da lei, ma fu lei a venire da me in camerino, ed era già in età. è Questo è quello che cerco adesso di trasmettere a chi non ha avuto queste possibilità, l’aver visto, l’aver lavorato così. Durante la pandemia ho cercato di ricordare le danzatrici con cui ho ballato e sono state più di cento. Darcey Bussell, Noella Pontois, Viviana Durante, Natalia Makarova, Ludmilla Semenyaka, Carla Fracci, Alicia Alonso, Cynthya Gregory… Ballerine che erano soprattutto grandi artiste, ed ho avuto la possibilità di star loro vicino, di ammirarle. Quando Carla (Fracci, ndr) mi chiese di danzare con lei la sua ultima Giselle al Metropolitan, per me fu una responsabilità ed un privilegio: ho finito che ero distrutto, il finale era vero, ero morto, più per l’agitazione e l’emozione che per il resto. Quando vedo un giovane danzatore che marca, che non prova… A volte hanno tutto e non ne approfittano; a cominciare dalla lezione, molti la prendono come un riscaldamento, non come un lavoro che pulisce prima delle prove. Oggi poi hanno meno tempo per lavorare perché ci sono tanti spettacoli, uno dopo l’altro. Non si provano i doppi tours o le pirouéttes durante le prove, ma a lezione. Questo manca, un po’ la curiosità, un po’ il sentire quello che si fa.

Questo è quello che il pubblico non tecnico ricorda di te e di Alessandra: voi comunicavate cosa stava succedendo, al di là della tecnica, il carisma, l’essere attori.

Quello per noi era la cosa più importante, la verità sul palcoscenico: interpretare il ruolo con la nostra personalità. Adesso però è anche colpa nostra, come maestri, se non lo richiediamo. I danzatori di oggi sono bravissimi, arrivano già formati, sono incredibili; per questo dobbiamo cercare la loro personalità, andare in questa direzione, questo è quello che sto cercando di fare con i giovani. Hanno tutto pronto con la tecnologia di oggi, ma bisogna andare a cercarne l’anima. Evitare che copino, ognuno deve essere se stesso. Lo stesso all’Opéra di Parigi: c’è una storia che pesa in questi grandi teatri per chi ci va a lavorare. Per me avere questa possibilità di lavorare così, specialmente dopo il disastro della pandemia, è un toccasana per l’anima. Sono felicissimo. Per fortuna il lavoro non mi manca e per fortuna mi piace viaggiare!

Quindi possiamo sperare che tornerai a Milano.

Spero, davvero, di tutto cuore. Ho recuperato il mio rapporto con l‘Italia, è bello perché sento molta emozione, anche per la mia famiglia, mio nonno. Poter tornare e dire grazie. Sono piccole cose che messe tutte insieme fanno tantissimo. Forse invecchiando sto diventando più sentimentale!

Chiara Pedretti

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