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LE URLA DI KEATS: ALCUNE RIFLESSIONI SULL’IPERIONE E LE LETTERE A FANNY BRAWNE: COME UN SOGNO 1815

Data:

Un modesto poeta nasceva nell’Inghilterra  dell’Ottocento romantico. John Keat ( Londra   1795 – Roma 1821 ).  È stato un poeta  britannico facente parte del “romanticismo di seconda  generazione ”, prese coscienza spirituale dell’epoca, sempre vigile nel cogliere la bellezza delle cose, anche il dolore, tra i suoi compagni viene decisamente descritto come uno a cui «nulla gli sfuggiva» come un ronzio di un’ape,  la vista d’un fiore, tutto questo faceva esplodere nel poeta il genio assoluto.

Per questo motivo, soprattutto la poesia, secondo Keats nasce dal profondo dell’anima, supera la fugacità della vita e diventa immortale. L’esito non deve trasmettere nessun messaggio ai suoi lettori, è dettata dall’immaginazione e ciò che colpiva questa facoltà nel poeta, era la bellezza.

La stesura dell’Iperione nasce nel 1815, racconta la storia della disperazione dei Titani dopo la loro sconfitta contro le divinità dell’Olimpo.

La poesia si apre con Saturno, superato da Giove e lamentando la perdita del suo potere, Thea lo conduce in un luogo dove siedono gli altri Titani, altrettanto infelici. Quindi discutono se combattere i nuovi Dei (le divinità dell’Olimpo) per reclamare il loro potere perduto. Oceano si dichiara pronto ad abdicare davanti a Nettuno, il nuovo Dio del mare, perché quest’ultimo è più bello.  Encelado pronuncia un discorso che incoraggia i Titani a combattere, infine Clymène descrive la musica di Apollo che trovava così bella al punto da soffrirne. Iperione è l’unico Titano ad aver mantenuto il suo potere. Dopo l’arrivo di Iperione, Apollo, il nuovo dio del sole, quest’ultimo consapevole del suo potenziale divino, ma incapace di realizzarlo, è in lacrime su una spiaggia. Mnemosyne, Dea della memoria, lo raggiunge e gli spiega la causa delle sue lacrime. Guardando gli occhi di Mnemosyne, Apollo riceve la conoscenza che lo rende un Dio completo.

Da questa trama si può notare come il piccolo genio di Keats aveva bisogno di tormentarsi, ma bisogna anche pensare che questo tormentoso lavorio non sarebbe mai stato realizzato da Keats se non nel momento in cui gli Dei non fossero venuti a trovarlo.

Alcuni versi dell’Iperione riportano il risultano di questo lungo processo di agonia e disperazione nell’animo del poeta, e Keats lo racconta attraverso la poesia che per sua natura è pura,  nel Canto I parla di Sogni e Torture.

 

 

«Hanno i loro sogni i fanatici e un paradiso poi con essi intrecciano per una setta. E anche il selvaggio dall’alto delle più nobili forme

del suo sonno un cielo intuisce. Peccato essi non abbiano tracciato ombra
di dolce melodia su pergamena
o carta d’India. E spogli di lauro

essi vivano, sognino e muoiano. Perchè solo la poesia raccontare
può i suoi sogni, e con il puro incanto delle parole redimere può l’immaginazione da un’oscura
malia, da un ottuso incantesimo.
Chi può dire tra i vivi:
«Tu non sei poeta, puoi tu forse i tuoi sogni raccontare?». Poichè ogni uomo la cui anima non sia zolla ha visioni, e potrebbe narrarle anche, se amato avesse la sua madre lingua,
così da essere da lei educato.
Se il sogno che si vuole recitare
ora sia di fanatico o di poeta potrà essere inteso solo quando questa mia mano calda di scrivano nella tomba sarà.»[1]

Il poeta già qui oscilla tra ciò che può salvare l’animo umano e la totale disperazione.

Keats redige l’Iperione in pieno periodo in cui si innamorò di una fanciulla, Fanny Brawne ( Londra 1800- Londra 1865) la loro relazione comincia nel 1818 e rimase sconosciuta fino al 1821 ( anno della morte di Keats) – nel 1878 vennero pubblicate le prime lettere, una prima lettera:

«Mia cara ragazza,

In questo momento mi sono messo a copiare dei bei versi. Non riesco a proseguire con una certa soddisfazione. Ti devo dunque scrivere una riga o due per vedere se questo mi assiste nell’allontanarti dalla mia mente anche per un breve momento. Sulla mia anima non riesco a pensare a nient’altro. È passato il tempo in cui avevo il potere di ammonirti contro la poco promettente mattina della mia vita. Il mio amore mi ha reso egoista. Non posso esistere senza di te. Mi scordo di tutto salvo che di vederti ancora, la mia vita sembra fermarsi lì, non vedo oltre. Mi hai assorbito. In questo preciso momento ho la sensazione di essermi dissolto – sarei profondamente infelice senza la speranza di vederti presto. Sarei spaventato di dovermi allontanare da te. Mia dolce Fanny, cambierà mai il tuo cuore? Amore mio, cambierà? Non ho limiti ora al mio amore… Il tuo biglietto è arrivato proprio qui. Non posso essere felice lontano da te. È più ricco di una nave di perle. Non mi trattare male neanche per scherzo. Mi sono meravigliato che gli uomini possano morire martiri per la loro Religione – Ho avuto un brivido. Ora non rabbrividisco più. Potrei essere un martire per la mia religione – la mia religione è l’amore – potrei morire per questo. Potrei morire per te. Il mio credo è l’amore e tu sei il mio unico dogma. Mi hai incantato con un potere al quale non posso resistere; eppure potevo resistere fino a quando ti vidi; e perfino dopo averti visto ho tentato spesso “di ragionare contro le ragioni del mio amore”. Non posso farlo più – il dolore sarebbe troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te.”»[2]

Tuo, per sempre

John Keats

 

In questa Lettera datata 1819 si può apprendere la disperazione totale del poeta verso la sua amata Fanny. Invece, le altre lettere che Fanny inviò a Keats, furono bruciate dagli amici di Keats su richiesta del poeta, la relazione così tanto tormentata a causa di alcuni conflitti e modi differenti di vedere il mondo, la realtà, diversamente da come la vedeva la fanciulla, segnò la fine della relazione. Anche in Iperione lancia urla di tormento che porta alla totale follia l’autore, molto probabilmente causata dal dolore della relazione. In Iperione scrive citando l’altare eterno della Divina potenza:

«prima che tu possa salire questi immortali scalini,
Io guardavo e ascoltavo: e i due sensi così sottili, così raffinati,

percepirono entrambi la feroce tirannnia di quella minaccia e il duro compito proposto; prodigiosa sembrava la fatica. E mentre ancora bruciavano le foglie, all’improvviso sentii il brivido d’una paralisi
salire da terra su per le gambe,
e tanto rapidamente che avrebbe presto fatto presa su quelle vene

che palpitano vicino alla gola.
Lanciai un urlo e l’angoscia di quest’urlo percosse le mie orecchie. Cercai invano
di sfuggire il torpore e di tornare
verso i gradini più bassi, ma lento,
fiacco e pesante era il mio passo e un freddo sempre più soffocante, asfissiante, s’avvicinava al cuore e quando giunsi
le mani non le sentii più. Un minuto
prima della morte i miei piedi
ghiacciati raggiunsero il gradino
più basso e toccandolo mi sembrò
che la vita rientrasse a larghi fiotti
dalla punta delle dita.
Allora m’involai di nuovo in su,
così come volarono una volta
gli angeli dalla verde terra al cielo
su una scala. «O Divina Potenza»,
implorai avvicinandomi all’altare,
«che cosa sono io da meritare
d’essere preservato dalla morte,
che cosa sono io che un’altra morte

non sopravvenga a soffocare queste mie grida così sacrileghe qui?
Disse allora l’ombra velata: Tu
hai assaporato che cosa significhi

morire e poi vivere nuovamente
prima dell’ora fatale. Che questo
fosse in tuo potere è stata la tua salvezza. Tu hai rinviato il tuo destino». «O sacra profetessa», dissi allora

io, «dissolvi, te ne prego, la nebbia
che avvolge la mia mente». Quest’altezza, ricominciò quell’ombra, può solo
essere conquistata da coloro
a cui i dolori del mondo rimangono dolori e non ne hanno tregua mai.

Tutti gli altri che trovano un cielo sulla terra, dov’essi sonnacchiosi passano i loro giorni, se per caso giungono nei pressi di questo tempio, marciscono su quel suolo dove anche tu poco fa hai rischiato di marcire.

Non ci sono migliaia di persone

al mondo, ripresi io, incoraggiato
da quella soave voce veritiera,
«che lo amano alla morte il loro prossimo, che sentono l’agonia gigantesca
del mondo, e in più, come schiavi alla povera umanità, lavorano pel bene
mortale? Certamente ci dovrebbero
essere qui altri uomini, perché sono
solo?». «Coloro di cui tu hai parlato
non sono visionari», replicò
quella voce, «essi non sono deboli
sognatori, essi non cercano altra
meraviglia che quella d’una effigie.»[3]

Su questo si apprende quanto il tema dell’eternità, la passione e la disperazione divampano nella poetica dell’autore,  specialmente il lato sensualistisco nella poetica di Keats è cruciale. Ma qui oltre che il lavoro del piacere della vita si mescola anche il dovere, seguendo la legge di Salomone “acquista sapienza, acquista conoscenza” . Ma anche la poetica di Shakespeare, oltre che la relazione con l’amata Fanny, e i poeti della Grecia antica, Keats sentendosi in dovere di seguire l’arte della conoscenza, ne segna per sempre la sua esistenza.

Andreina Sergi

[1] J. Keats, La caduta di Iperione, a cura di E. Fazi, Fazi Editore, Roma, 2013, p. 32.

[2] J. Keats, Dalla sublime solitudine. Lettera d’amore a Fanny Brawne, a cura di G. Prampolini, Ripostes Editore, Milano, 2019, p. 19.

[3] Keats, La caduta di Iperione. Un sogno, a cura di F. Fazi, Fazi Editore, Roma, 2013, p. 36.

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