“Otello” al calor bianco infiamma il Municipale di Piacenza

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Teatro Municipale, Piacenza recita del 17 dicembre 2023

Un’inaugurazione festosa a Piacenza: questa la sensazione provata assistendo a una serata magica, purtroppo sempre più rara, in qualsiasi teatro d’opera. Meno importante rilevare la miglior (o minor) resa artistica di questo o quell’interprete, quanto piuttosto l’atmosfera particolare che ha permeato la rappresentazione. L’entusiasmo si è sprigionato già alla fine del primo tempo, con il pubblico a chiamare insistentemente alla ribalta i due protagonisti per culminare nel trionfante finale che ha coronato lo spettacolo coinvolgendo platea, palchi e gallerie in un comune entusiasmo. Potenza della musica di Verdi e della bravura degli artisti che ha saputo evocare la vera magia del teatro. Otello di Giuseppe Verdi, nel nuovo allestimento in coproduzione con il Comunale di Modena, Municipale di Reggio Emilia, Coccia di Novara e Sociale di Rovigo ha dato il via al Teatro Municipale di Piacenza alla Stagione d’Opera 2023-2024. Dramma lirico in quattro atti su libretto d’Arrigo Boito, Otello ebbe la prima trionfale esecuzione al Teatro alla Scala il 5 febbraio 1887 con Francesco Tamagno Otello, Victor Maurel Jago, Romilda Pantaleoni Desdemona e direttore Franco Faccio.  Sedici anni dopo aver composto Aida, sembrata la gloriosa musicale verdiana, il compositore stupì il mondo musicale con Otello: a settantaquattro anni Giuseppe Verdi mostrò che lo spirito creativo che ardeva nel petto, non solo era vivo, ma ancora bruciante. Nel 1879 Boito aveva presentato al musicista un libretto scritto di propria iniziativa, geniale parafrasi della tragedia di Shakespeare; il compositore, favorevolmente colpito dalla bellezza del testo letterario, si affrettò ad acquistarlo senza impegnarsi a metterlo in musica. Il librettista aveva cooperato in modo efficace all’evoluzione dell’ultimo periodo compositivo del musicista: nettamente superiore ai lavori in precedenza musicati da Verdi, quello d’Otello ha pregi letterari sia nello svolgimento del dramma sia nella versificazione, oltre a palesi pregi teatrali, importantissimi per la forma moderna della sceneggiatura. Il compositore pensava alla tragedia fin dal 1880 e lavorò alla stesura dello spartito dal 1884 al 1886, essendo Otello la sua opera più meditata. Nell’intervallo che intercorre tra Aida e Otello, Verdi fu pronto a cogliere gli sviluppi che la musica aveva conosciuto: la partitura è essenzialmente moderna tanto nello spirito che nella tecnica compositiva. Musicandolo dimostrò di possedere una sorprendente “gioventù creativa”, frutto d’esperienza musicale e drammatica di una vita che gli permise di creare un tipo nuovo di melodramma, conferendo alla partitura uno status unico, all’interno della storia della musica. Otello è opera nuova, frutto di lunga maturazione dei mezzi espressivi, di tormentato e personale accostamento alle teorie sul dramma musicale che si stavano imponendo (Wagner è di moda nelle discussioni) e insieme espressione di pienezza vitale che contrasta con l’età del compositore. La caratterizzazione dei personaggi è profonda: nello spartito verdiano difficile scoprire stacchi netti fra “brani melodici” e “recitati”, tra arie e recitativi, perché tutto si fonde senza cesure. Arduo stabilire se il dramma scaturisca per suggestione del canto, ampliando e moltiplicando musicalmente il significato della parola o per l’accresciuta magia dell’orchestra, che sviluppa i temi musicali di pari passo con il canto. Verdi osò molto, e grande fu la sfida intrapresa, riuscendo con pieno successo quello che pochi avevano osato fare: misurare la propria abilità con Shakespeare. Otello era Gregory Kunde, che dall’alto dei suoi sessantanove anni, impavido, affronta ancora la parte del Moro (a dodici anni dal debutto) con intensità e spessore drammatico sorprendenti. La voce inizialmente mostra fisiologico appannamento e reticenza nel sottostare all’impeto che domina il tenore americano, ma non tentenna di fronte all’Esultate! reso con squillante veemenza.  Capace di consolidare, migliorandola nel prosieguo, la tenuta vocale che gli permette senza sfiancamenti per i continui sbalzi sostenuti dalla voce, di giungere al termine. La parte è improba e Kunde scandaglia il ruolo a fondo: l’interpretazione non scivola mai nel convenzionale operistico, trovando sempre accenti convincenti. Artista vero, non fatica a immedesimarsi nel personaggio, reso in ogni piega attraverso una gustosa mimica facciale e di gesti che lo fa attore partecipe e inconfondibile. Regale e commovente in Là nella notte densa, duetto d’amore in cui si fa obliante nell’estasi amorosa resa in fascinanti i pianissimi ben sostenuti, pur anco sovvenendosi di antiche sofferenze, lenite con la forza della passione: quel che si è perso in freschezza di canto si è guadagnato in intensità espressiva. Ora e per sempre è lacerante nella vibrante umanità, straziato dalla malefica gelosia. Con Si pel ciel sfodera incontenibile baldanza, in trascinante gara di fraseggio e d’infiammati accenti con Jago. Dio mi potevi scagliar è una lezione di recitazione: sublime nell’esprimere la tortura che lo dilania (ben sostenuto dal direttore) in accorata pregnanza di struggenti mezze voci. Niun mi tema è intriso di accorata rinuncia alla vita cui subentra la mestizia del finale; mestizia infinita, da muovere a lacrime, per un uomo senza speranza alcuna. Un bacio ancora…perfetto straziante suggello di un’interpretazione intensa. Vero che la voce è inficiata da oscillazione ma le mezze voci suonano sonore e mai sbiancate; vuote sono le rare incursioni nel registro basso (poche in verità) e lo strumento vocale, pur ormai carente di velluto è raggiante quando può espandersi. L’impegno e la generosità profuse da Kunde danno ragione, infine, del caloroso entusiasmo che suscita. Di pari statura lo Jago di Luca Micheletti, dal bel timbro omogeneo in ogni registro, voce ben proiettata che ben si espande e dal tagliente squillo e fresca nelle scintillanti risonanze. Crea uno Jago sottile e perfidamente insinuante, motore primo della vicenda, piegando le caratteristiche vocali a scolpire con un fraseggio approfondito e variegato il personaggio di malefica anima nera che persegue il suo fine con lucida determinazione. Il baritono bresciano abilmente giovandosi del physique du rôle e della sagacia e della disinvoltura nel tenere la scena (lui valente attore di prosa) giunge a delineare Jago con sottigliezza psicologica, mai riducendolo a un vilain di stupida cattiveria. Convincente nel Beva, beva, con me, nella variegata dinamica vocale, trova uno dei momenti migliori della serata nel duetto con Otello, sottolineato dall’entusiasmo del pubblico. Agghiacciante il Credo, impressionante per il lucido cinismo ottenuto attraverso l’affondo della parola e con un canto tagliente: sottigliezza di fraseggio terrificante e spaventosa linearità di pensiero che si traduce nel disincanto cosmico al termine dell’aria. Mellifluo in Era la notte, convincente e satanico negli splendidi piani, sferra poi precisa sillabazione nel duetto con Cassio. A Desdemona prestava la voce Francesca Dotto, timbro caldo e omogeneo, capace di preziosismi vocali e sfumature. Partecipe come interprete, tenera amante appassionata ma ferma nel rintuzzare i sospetti, quanto poi sa essere dolente e rimessa alla “malia” che ha colpito Otello. In Dio ti giocondi o sposo la voce si espande per farsi vibrante nel duetto, accorata per intensità e pulizia di canto in quelle prime lagrime. Trova accenti d’assoluta mestizia nella Canzone del salice sfociando con linea di canto dal bel legato in un’intensa Ave Maria, accompagnata in modo raffinato dall’orchestra. Brava attrice, sicura nel tenere la scena. Il resto del cast vedeva Antonio Mandrillo nel ruolo di Cassio, timbro caldo pur con volume e spessore non eccelsi ma sicuro nel canto e credibile in scena. Puntuale Roderigo di Andrea Galli, preciso Montano di Alberto Petricca, discreta Emilia di Carlotta Vichi, modesto Lodovico di Mattia Denti e corretto araldo di Eugenio Maria Degiacomi. Una partitura, quella verdiana, dai marcati tratti sinfonici che richiede una resa cromatica e una compattezza che l’Orchestra Dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini non ha saputo rendere appieno. La direzione del Maestro Leonardo Sini ha mostrato buone intenzioni ma non sempre approfondite; capace di vibrante intensità e pathos nei momenti lirici e sospesi, è solo esuberante ma carente di sfumature nella velleitaria esplosione dei momenti guerreschi e di sottigliezze nei passi di tensione drammatica. Concertatore di livello, supporta bene i cantanti nel non facile compito di legare palcoscenico e flusso sonoro dell’orchestra. Godibile lo spettacolo firmato dal regista Italo Nunziata, nell’apprezzabile l’impianto fisso di Domenico Franchi, sullo sfondo una sagoma di veliero, per arredare poi con pedane e funzionali pannelli che riquadrano la vicenda. Colorati i costumi femminili, più stereotipati quelli maschili di Artemio Cabassi, e Fiammetta Baldiserri per le luci. Curata la recitazione a far emergere la psicologia dei protagonisti della tragedia, lasciando al centro dello spettacolo il canto. Più convenzionale e non sempre efficace e chiaro il movimento delle masse. Accoglienza entusiastica per tutti, con boati di calorosa approvazione per Kunde, Michieletti, Dotto e il Direttore Sini.

gF. Previtali Rosti

Foto Gianni Cravedi

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