Al Teatro Rossetti di Trieste
Ci sono argomenti che risultano delicatissimi da trattare perché toccano delle corde terribilmente sensibili in ognuno di noi, dei nervi che vogliamo credere essere ben coperti e protetti, ma che in realtà è sufficiente un soffio per sentirli fremere. Uno di questi è la questione israelo-palestinese: basta sentirla nominare per far scattare uno stato di allerta, una necessità quasi fisica di prender posizione, da una parte o dall’altra. Ci vuole moltissimo sforzo per cercare di fermarsi, acquietare i nostri sensi e provare a capire, innanzitutto, i motivi, tutti legittimi, che stanno alla base di reazioni così forti. A volte questa operazione può essere molto faticosa, dolorosa, per niente facile: mette in discussione elementi che hanno nutrito in secoli di storia e politica le radici della vecchia Europa e, per osmosi, anche quelle di ognuno di noi.
Ben vengano quindi iniziative come quella de Il Rossetti di Trieste che ha posto in cartellone, a distanza di poche settimane, due spettacoli molto dissimili che parlano proprio di questo in modo speculare e, per molti versi concorde: “Terra di confine – Viaggio in terra d’Israele e Palestina” di Daniele Salvo, ispirato agli scritti di Amos Oz da una parte e, dall’altra, “Amleto a Gerusalemme – Palestiniankidswant to see the sea” di Gabriele Vacis e Marco Paolini, nato sotto l’egida del Ministero degli Affari Esteri, della Cooperazione Internazionale e della Cooperazione Italiana.
Entrambi scomodi, sanno affrontare e proporre al pubblico, con grandissima delicatezza, pur senza nascondere nulla, questa miscela altamente esplosiva di sentimenti contrastanti, odi, rancori, fatiche quotidiane, dolori, tragedie strazianti. Con entrambi sembra veder agire degli abilissimi artificieri dotati di rispetto profondo per chi vive la quotidianità di un conflitto che “non è una lotta fra bene e male…piuttosto una tragedia antica…: lo scontro fra un diritto e un altro, fra una rivendicazione profonda, pregnante, convincente, e un’altra assai diversa, ma non meno convincente, pregnante, non meno umana” [Amos Oz].
“Terra di confine” riprende la lettura teatrale, “Contro il fanatismo” che Daniele Salvo aveva proposto già nel 2007. Il nuovo spettacolo vede in scena i bravissimi: Alfonso Veneroso (nella parte di Amos Oz), Elio d’Alessandro e Marco Imparato, che impersonano ora degli israeliani, ora dei palestinesi e lo stesso regista, in un breve ma intensissimo cammeo impreziosito dalle note di Marco Podda, al quale si deve pure la cura di tutte le musiche, capaci di aggiungere ulteriore profondità all’intera rappresentazione.In essa sentiamo il mite grido di chi, figlio di immigrati, si sente incompreso da quell’Europa da cui i genitori provenivano e, attraverso la ricerca di un costante ed equilibristico compromesso cerca, da scrittore di vaglia e grande intellettuale qual è, la strada per un “divorzio equo” fra i due popoli.
Cita Shakespeare, Amos Oz, e questo è il primo e forse più evidente punto di contatto con “Amleto a Gerusalemme”, spettacolo nato da un percorso completamente diverso, frutto importante di un progetto iniziato nel 2008 al Palestinian National Theatre di Gerusalemme:dar vita ad una scuola di recitazione per ragazzi palestinesi, con insegnanti palestinesi guidati da Gabriele Vacis e Marco Paolini, e laboratori realizzati prima a Gerusalemme, poi in Italia. I giovani partecipanti hanno iniziato con temi trattidall’ “Amleto” di Shakespeare, raccontandoli a partire da se stessi. È così che le vicende della tragedia immortale si mescolano con le narrazioni delle vite di questi giovani, sapientemente orchestrate da Marco Paolini che sul palcoscenico dirige l’intero gioco; si mescolano pure le lingue che si sentono parlare in scena, in un intreccio di suoni diversi: l’arabo di Alaa Abu Gharbieh, Mohammad Basha, NidalJouba, e BahaaSous; l’inglese e l’armeno di Ivan Azazian; l’italiano di Matteo Volpengo e Giuseppe Fabris che traducono anche dall’inglese e quello di AnwarOdeh, che unica ragazza, nata a Torino da genitori palestinesi, traduce dall’arabo all’italiano; l’italiano cantilenante di Marco Paolini che alla fine si fa veneto. In scena innumerevoli bottiglie vuote che vengono usate per tutto il tempo per costruire un plastico (è il caso di dirlo) della città di Gerusalemme, con le sue porte e i luoghi sacri appartenenti alle tre religioni monoteiste. Si parlano da lontano in un idioma comune, quello del teatro, grazie al quale ora affiorano, ora rimangono sottotraccia, termini come memoria, giustizia, eredità dei padri: cifre dal peso a volte insostenibile per due popoli, entrambi di origine semita, con forse troppo in comune. Il fatto di avere la possibilità di assistere ai due spettacoli, davvero complementari, è un privilegio dato al momento soltanto al pubblico del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e forse è naturale che ad aprire la strada sia stata Trieste, città di frontiera, testimone nello scorso secolo di laceranti vicende storiche. “Terra di confine” e “Amleto a Gerusalemme” rappresentanol’ineludibile e urgenterichiesta d’aiuto all’Europa. Sarebbe importante poter dare anche ad altri pubblici in Italia la possibilità di confrontarsi con queste due voci.
Paola Pini