Teatro La Fenice, Venezia, fino al 4 giugno 2016
Inutile girarci attorno, L’amico Fritz è commedia lirica debole in toto. A ragione Verdi stigmatizzò la stupidità dei versi e l’arditezza compositiva, a ragione D’Annunzio la definì frutto di quell’arte moderna bramosa di “adoratori umili e pazienti”, visione ahimè ancora attuale nel 2016. Il libretto di Daspuro, tratto da L’ami Fritz di Émile Erckmann e Pierre-Alexandre Chatrian, riscrive in termini eccessivamente patetici un soggetto esile, ove l’azione, eccezion fatta per gli sporadici momenti di tormento interiore di Suzel e di Kobus, latita. Si beve con misura, si sogna ad occhi aperti e ci si innamora tra ciliegie, violini tzigani e andirivieni di barroccini. La partitura è alla ricerca costante di soluzioni eterogenee, anelando Mascagni a scostarsi dalla convenzione per creare qualcosa di diametralmente opposto a Cavalleria. Ecco allora canzoni alsaziane e accenti raminghi che strizzano l’occhio all’operetta d’Oltralpe, sonorità medievali nella ballata Bel cavaliere, sinfonismi veristi nel celebre Intermezzo. Si sa, il troppo stroppia. Non sarà un caso se, di fronte a cotanta varietà melodica, il popolo ricordi solo il Duetto delle ciliegie, amato dalle nostre nonne che lo canticchiano mentre preparano il semolino o pongono la naftalina negli armadi.
Ci vuole quindi grande inventiva registica per superare la disarmante ingenuità della trama. Simona Marchini sostiene d’aver scelto una soluzione al contempo concettuale ed emozionale, ma non sono riuscito a riscontrare né idee né sentimenti che esulassero da quelli presenti nel libretto. Mi spiego. Se Marchini legge Fritz all’ombra della “sindrome di Peter Pan”, mi aspetto di veder restituito sulle assi tale conflitto. Non l’ho trovato, perché i protagonisti non si scompongono nemmeno innanzi al trasalimento amoroso. Percepisco quindi la mancanza di una regia efficace nell’analisi dei personaggi sotto una lente accattivante, costretti invece in una minima recitazione convenzionale che poco si sposa con la musica dalla forte vis evocativa. Le scene di Massimo Checchetto racchiudono gli interpreti in un claustrale spazio ligneo trapezoidale, prima interno borghese e poi giardino dei ciliegi, congeniale a certi drammi ibseniani, ma non all’idilliaca atmosfera di Fritz. I costumi di Carlos Tieppo vogliono omaggiare la tradizione alsaziana ma, assestandosi su assortimenti cromatici non convincenti, rischiano di esserne più una caricatura. Il light design di Fabio Barettin consiste solo in una luce fissa centrale e palpitanti bagliori laterali, poca cosa rispetto ai miracoli fatti nel Don Giovanni di Michieletto.
Clima sereno sul versante musicale. L’Orchestra della Fenice si avvale del talentuoso Fabrizio Maria Carminati, la cui direzione trasforma la musica in materia viva, tanto da diventare palpabile nel celebre Intermezzo. Ottimo il vigile rapporto con i cantanti, come condivisibili in pieno sono le scelte dinamiche e ritmiche, volte a descrivere una narrazione omogenea.
Alessandro Scotto di Luzio, sicuro in una linea di canto colorata di tinte sovente cangianti, è Fritz cogitante che dà il meglio di sé nel terzo atto, quando il poeta gli concede qualche autentico attimo intimista.
Carmela Remigio, meravigliosa interprete mozartiana, mi pare sacrificata nella parte di Suzel. Seppur tecnicamente regali una prova corretta, cesellata di fraseggio intelligente e bei colori, la voce rimane troppo importante e adatta ai nervosismi più impegnativi della Contessa, di Vitellia, di Donna Elvira, ruoli ancor vivi nella mia memoria.
Teresa Iervolino incarna en travesti Beppe, lo zingaro dispensatore di mestizia. Grazie all’emissione perfetta e il gusto per l’interpretazione, Iervolino convince il pubblico veneziano anche per il timbro scurissimo, confacentesi all’ambiguo personaggio quasi esule da Zigeunerbaron.
Il rabbino David di Elia Fabbian può contare sulla credibile presenza scenica. Alcune asprezze iniziali su Tu pur, bimba, sei qua? e l’eccessiva perentorietà del cantato si stemperano in corso d’opera, determinando così una discreta prestazione.
Willam Corrò è un perfetto Hanezò, mentre Alessio Zanetti corretto Federico. Scolastica la Caterina di Anna Bordignon.
Impeccabile il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti.
Eccellente il primo violino Roberto Baraldi nell’assolo introduttivo all’entrata di Beppe.
Consensi calorosi per tutti alla serale del 31 maggio.
Luca Benvenuti