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MILO DE ANGELIS E LA FEROCE APPARTENENZA

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Appartiene a una dimensione tragica la poesia di Milo De Angelis, imponendosi negli anni come voce tra le più ferme e riconoscibili nella dirompenza del dettato. Entro pochi temi a cui ritorna con ossessione sviluppa una riflessione sull’esistenza dominata da uno stato di tensione in cui bellezza della vita e  rovina emergono in tutta la loro appartenenza feroce. La ricerca è quella di una identità, data nella rivelazione della sua verità, assoluta e cosmica, lontano da ideologie e sistemi, più profonda. Di qui la Milano periferica, la figura del padre e quella della giovinezza, la solitudine  del cammino, il nulla, la gioia, la morte sono le domande di un’epoca al buio volta nella sacralità della cronaca a uno sguardo lucido-e senza infingimenti- sul proprio destino. È una parola nel sentore di un esilio, che si nutre di opposti, che cerca nell’istante cruciale la possibilità di una compiuta declinazione di uomini e tempi alla luce di un reciproco e contrastato compimento (“Ciò che vedo mi fu consegnato/da un respiro fratello e nemico/fino a quel teatro sgomento/dove abbiamo preso la parola,/tra l’allegria dei papaveri/e la rovina celeste. Era/una frase che, penetrando/nella ferita più buia, la fa sua,/la guarisce, l’aggrava, la sposa/ era il talismano/stesso del nulla, quando divampa/nel grande paese di Milano/e riscalda milioni di fantasmi”). Il tutto in uno stile che vive di un accadere cruciale, oscillante tra un lessico della contingenza e quello di una realtà alta cui guarda nello slancio quasi primordiale. Meraviglia e sgomento, dolore e riscatto finendo col convivere così nella figura di una memoria e di una attesa che si fa immagine grazie anche a una scrittura che procede per cortocircuiti, per rincorrersi di tensioni nell’andamento ora lirico ora prosastico del verso. Il muoversi vibrante dell’analogia, della sospensione, del frammento dunque come forme di una espressione che cerca carne tra le maglie di una visione innamorata e ferita. La novità di De Angelis in definitiva è proprio qui, nel racconto di un’epoca che procede per sottrazioni, nella volontà della voce di trarre da luoghi e anime scisse il permanere e il risalire di una verità prima di noi. È allora una storia nella densità delle sue fratture, delle sue insistenze tra soste e attese,  tra digressioni, che si offre nell’esattezza talora impietosa del dettaglio. In quest’aspirazione all’essere che comunque non si illude si racchiude una delle esperienze più esemplari e seguite della nostra poesia.

Gian Piero Stefanoni

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