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“L’IMMENSITÀ”, CRIALESE RACCONTA UN’IMMENSITÀ SENZA ECHI

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Emanuele Crialese torna al cinema con L’immensità dopo undici anni esatti da Terraferma: già i titoli delle due opere sembrano suggerire un percorso che ha portato l’autore a un punto antipodale, ad un porto lontano, dalla terra ferma ad un luogo immenso. A qualcosa, quindi, di più intimo, privato e segreto. Qualcosa da raccontare con un filo di voce.

Ma l’opera di Crialese, presentata in concorso alla 79esima edizione del Festival del Cinema di Venezia, a dispetto proprio di quel titolo, rimane spesso costretta nei suoi recinti sicuri, assediata dai suoi stessi confini, senza riuscire a scavalcare i primi o ad aggirare i secondi; a rompere schemi, a stimolare lo sguardo dello spettatore in modo da far ricordare o annunciare questa immensità, che si intesse come trama di fili essenziali tra le persone. Tra una madre di origini spagnole, interpretata da Penelope Cruz, e i suoi tre figli, ma ancora più maggiormente tra la donna e la figlia maggiore, Adriana, che vede la madre triste e bellissima, che vuole proteggerla mentre attraversa la sua adolescenza come un alieno, prigioniera di un corpo che non le appartiene. Adriana vuole essere Andrea, vuole amare Sara, una ragazzina di una famiglia di zingari che vive poco distante da casa sua, oltre il canneto che le è proibito attraversare. Ecco che ritorna ciclicamente nel film di Crialese l’idea di evasione, per oltrepassare limiti imposti, per cercare altro, perciò se stessi.

Ma il film, in un incedere sincopato, episodico, sommativo di episodi spesso slacciati tra loro o troppo confezionati, non trova la sintesi, non ci fa toccare, sentire, percepire questa immensità: la fuga non si compie, c’è, ma porta ad un nulla di fatto. “Mi illumino d’immenso”, scriveva il grande poeta Giuseppe Ungaretti. In L’immensità l’illuminazione non funziona: tutto è circoscritto e geometrico, ma poiché piatto e senza spigoli mancano le zone d’ombra, i punti d’accesso privilegiati per un cammino interiore. Il racconto, quasi fiabesco, non ha guizzi, non ha echi, tenta di inquadrare un’intimità familiare di rapporti, materna e filiale, ma non riesce mai ad approfondire, non osa addentrarsi in quella trama di fili intricata e sterminata che è il cuore pulsante delle relazioni, a causa anche di alcuni eccessi di scrittura, di dialoghi, di situazioni archetipiche che si affastellano, provocando così un effetto indesiderato: tolgono verosimiglianza alla vicenda narrata, respiro emotivo e presa empatica.

Simone Santi Amantini

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