Il 22 agosto 2020 al Festival di Borgio Verezzi
“Il teatro deve poter proseguire”, ci dice Moni Ovadia in Piazzetta Sant’Agostino al 54° Festival di Borgio Verezzi (Savona), nell’attesa del debutto nazionale di “Nota stonata” di Didier Caron, di cui è regista. Sul palco, tra poco, a calcare le scene ci saranno Giuseppe Pambieri e Carlo Greco (sua anche la traduzione del testo).
“Nonostante la pandemia”, continua Ovadia. “All’aperto, finché la stagione ce lo permette, come qui stasera. E poi perché non pensare a ritornare ad allestire concerti per la strada, con la gente che osserva e ascolta dalle finestre e dai balconi? Un modo per andare avanti dobbiamo trovarlo”. E conclude: “Quello che tutti i governi che si sono succeduti – proprio tutti – non hanno mai capito, è che istruzione e cultura devono avere la priorità su tutte le cose…”.
Un bell’inizio per uno spettacolo che affonda nelle pagine di storia, e che si aprirà con il saluto di due rappresentanti dell’associazione Italia-Israele di Savona, costituitasi di recente in loco ma impegnata proprio sui temi del “non far dimenticare” quanto sia successo storicamente.
La pièce (nella foto di Luigi Cerati) si svolge all’interno di un camerino di un direttore d’orchestra, Hans Peter Miller (interpretato da Greco), musicista famoso e arrogante, sotto il fil rouge di un’escalation emotiva che ben presto impregna piazzetta Sant’Agostino. Miller ha appena terminato un concerto sotto gli applausi ma non è soddisfatto. Pur stanco, viene ripetutamente importunato da un fan invadente, dalla faccia tosta e pieno di mille futili richieste (Pambieri), che finge di non capire di essere inopportuno. Passo dopo passo capiremo che quest’uomo ha un piano ben preciso in mente: far confessare al personaggio pubblico tanto acclamato che il suo cognome non è quello e che è figlio di un nazista; in un campo di concentramento il padre lo aveva invitato/costretto, per una sonorità sbagliata, ad ammazzare il di lui genitore.
Da Pambieri ci si aspetta sempre il massimo e l’attore non delude: tiene col fiato sospeso il pubblico quando dice e non dice, chiarisce e rimanda a dopo altre spiegazioni, sempre senza perdere il ritmo. Lo vediamo abbracciare una vecchia leggerissima casacca del lager con trasporto emotivo, strappare la foto che incrimina il musicista sotto la minaccia di una pistola che gli è stata sottratta facendoci credere che sia l’originale (poi saremo indotti a pensare che ce ne siano altre copie), stessa sorte per un dossier che lascia nelle mani del Maestro, lavoro infinito di ricerca su cui tanti ex deportati si sono cimentati.
Alla sua uscita di scena con un “mio padre avrebbe preferito così”, c’è appena il tempo per un mesto sorriso. Perché il pianto di Greco ci incolla alla sedia, davvero bravo, lui che poco prima ci aveva conquistato già con una risata d’isteria, alla scoperta della pistola scarica con la quale doveva togliersi la vita, dato che l’ebreo lo aveva convinto ormai che “tutti” sapessero già “tutto”: la sua famiglia, i componenti della sua orchestra, il primo violino di cui non era minimamente soddisfatto per la prestazione in concerto (e che teme lo guardi con sufficienza, come troppi, come se sapessero…), e chi lo voleva a Berlino. Quasi buffo: per una nota stonata, al freddo, svestito, affamato, con la dissenteria, il padre ebreo deportato era stato assassinato. Un rischio che corre oggi il musicista/assassino: con la finestra aperta, visto che fuori nevica ed è appena uscito dalla doccia, sbaglia anche lui. La paura lo attanaglia da quando le carte in tavola si sono scoperte, ma fino all’ultimo continua a negare, poi ammette ma vuole ugualmente salvarsi la vita, con le mille spiegazioni che già conosciamo: se non lo facevo io sarebbe stato un altro!, era un ordine!, non potevo deludere mio padre! Eppure, ci racconta che rivive ogni giorno quegli spari maledetti come se questa sofferenza sia un prezzo sufficiente per mantenere onore, fama e reputazione immacolata, sotto un cognome usurpato.
Scene di Eleonora Scarponi, costumi di Elisa Savi. Per favorire la trama, uno schermo funge da finestra e, all’uopo, sul vetro sono proiettate alcune immagini (peccato!, manca la foto da cui parte tutto, quella col piede del nazista in sfregio sul corpo dell’ebreo morto).
Prima dell’avvio dello spettacolo, si è aperto un collegamento Skype con l’attrice Marta Zito, che lo scorso anno è stata Beatrice e Colombina nella versione de “I due gemelli veneziani” di Goldoni, riscritta da Natalino Balasso, regista Jurij Ferrini. Sul palco c’è la direttrice della Fondazione De Mari, Anna Cossetta, con il Premio che ogni anno viene destinato all’attore o all’attrice non protagonista che si sia particolarmente distinto/a al Festival. Nella motivazione, il riconoscimento viene idealmente esteso a tutta la compagnia di giovani talentuosi del Progetto Urt, che la scorsa estate ha calcato le scene in Piazzetta.
Laura Sergi